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La rilevanza civica del giornalismo nella cronaca giudiziaria - Ordine Dei GiornalistiOrdine Dei Giornalisti

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La rilevanza civica del giornalismo nella cronaca giudiziaria

10/02/2025

immagine realizzata con IA Midjourney

"LA RILEVANZA"

REPORT 2025
Scenari e prospettive

La rilevanza civica del giornalismo nella cronaca giudiziaria

Riccardo Sorrentino
Giornalista, Presidente Ordine dei giornalisti Lombardia

Introduzione

Spiegare la complessità delle realtà, rendere trasparente un potere che rischia – come tutti i poteri – di restare opaco. Non c’è argomento più delicato, per il giornalismo, della cronaca giudiziaria, non c’è altro ambito, forse, in cui la sua funzione possa meglio esprimere la sua rilevanza civica. La classica ricerca delle notizie, “per strada”, la verifica delle fonti, la conoscenza tecnica dei processi e delle funzioni delle singole norme, gli elementi deontologici, si intrecciano in quello che diventa sempre più la forma paradigmatica del giornalismo, del passato come del futuro. Anche perché è nei tribunali che si esercita la forma più incisiva dei poteri: quello che toglie i beni, la libertà, in alcuni paesi anche la vita delle persone.

Non può sorprendere però, tenuto conto dell’attenzione del pubblico per questi temi, che la cronaca giudiziaria sia anche il luogo in cui il giornalismo rischia maggiormente di cadere in tentazione, smarrire la strada e perdere quindi la fiducia dei suoi tanti, diversi, pubblici e quindi – paradossalmente – rilevanza. Per un motivo molto semplice: perché a volte – come può accadere ai piloti di aerei molto piccoli, tra le nubi – può capitare di volare, rovesciarsi senza accorgersene, convinti anzi che tutto sia procedendo nel migliore dei modi. Accade quando il giornalismo si presta, in modo più o meno attivo, alla “giustizia parallela”, al tentativo di condannare o assolvere al di fuori delle procedure previste a tutela della giustizia. I rischi per la professione, e quindi per la vita civile, sono enormi: un giornalismo che – convinto di rivelare notizie, di fare inchiesta, di esprimere opinioni – va al traino di un potere, quale che sia, o di una corrente di opinione faziosa e prevenuta è un giornalismo debole, screditato, sconfitto.

Non c’è forma più delicata di giornalismo della cronaca giudiziaria. Non c’è in gioco solo la dignità delle persone, che pure è elemento importante, che informa le regole del nostro codice deontologico. La cronaca giudiziaria si occupa soprattutto dell’applicazione della violenza terribile dello Stato sui suoi cittadini, che possono essere privati della libertà, dei propri beni, in alcuni Paesi anche della vita. Diritto penale e diritto di procedura penale costituiscono il volto terribile del diritto, della giurisdizione. Il potere del magistrato, del giudice è allora il più incisivo tra i poteri.

Contro la violenza, gli uomini e le donne hanno un solo strumento: la ragione. Non la ragione matematica – che pure è fondamentale – ma la ragione discorsiva, dialogica, che nasce da un confronto tra diverse argomentazioni. La civiltà è questo, e niente altro.

Senza il confronto aperto, razionale e pubblico, la giustizia diventerebbe altro, e non deve farlo. Non può trasformarsi per esempio nell’agenzia che esercita la vendetta privata, rendendola pubblica.

Per questo motivo è giusto pensare che sia stato un vero e proprio salto di civiltà dell’ordinamento giuridico italiano il passaggio dal sistema inquisitorio al sistema accusatorio, in cui le prove si formano nel dibattimento, nel corso di una discussione virtualmente o, meglio, tendenzialmente paritaria tra la difesa e l’accusa.

Allo stesso modo sono importanti – e noi giornalisti dobbiamo esserne consapevoli – gli sforzi del mondo del diritto di proteggere il dibattimento dalle ingerenze esterne che possano alterarne lo svolgimento. C’è un “linguaggio della purezza” che i giuristi adottano a proposito del processo penale, per esempio quando parlano di “verginità cognitiva” del giudicante, che deve avvicinarsi al dibattimento quasi senza nulla sapere della questione di cui si discute. È un uso enfatico del linguaggio, forse non rigoroso, ma esprime una cura doverosa verso il delicato equilibrio di quelle procedure.

Non c’è uso razionale del potere, però, se non c’è responsabilità, accountability, trasparenza. L’informazione su quanto avviene durante le indagini, poi nel dibattimento, quando c’è, e anche dopo la sentenza, resta fondamentale. Le dittature ne sono – a contrario – la prova.

Il tema della verginità cognitiva richiama immediatamente il cuore della discussione sul rapporto tra giustizia e informazione: il problema, indubbiamente grave, della “giustizia parallela”, la pretesa di fare giustizia penale al di fuori delle aule giudiziarie, senza le regole, le garanzie, i vincoli del diritto.

Qualcuno la chiama “giustizia mediatica”. Non è una formula appropriata, perché evoca soluzioni che non risolvono il problema, in genere il segreto. Il decreto legislativo 188 del 2021 sulla presunzione di innocenza ha per esempio moltiplicato i problemi, e non li ha risolti. Ha complicato il lavoro dei giornalisti, li ha resi potenzialmente esposti a una selezione avversa delle fonti. Si è corso un rischio, che solo la responsabilità di tutti i protagonisti ha evitato: il rischio che le fonti più spregiudicate potessero assumere un ruolo più importante, persino esclusivo.

Parlare di giustizia mediatica non è allora corretto. Non perché non esistano patologie, a volte anche gravi, del giornalismo. Quel concetto va respinto, piuttosto, perché i media sono soltanto il luogo virtuale, lo spazio virtuale in cui si cerca di fare “giustizia parallela”.

In questo luogo virtuale in cui si fa “giustizia parallela” non si muovono soltanto i giornalisti, che sempre meno lo governano, e forse non l’hanno mai fatto. In un recente evento dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, a Milano, l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli ha parlato di una catena lunga dell’informazione, di cui le giornaliste e i giornalisti sono soltanto un anello, insieme ai politici, ai magistrati, agli avvocati e, si può aggiungere, agli specialisti di litigation public relation, mondo oscuro non vincolato da regole deontologiche.

De Bortoli ha richiamato come esempio il caso di quel ministro che nel 2014, pur essendo avvocato, dichiarò: “Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara”.

Forse il caso più interessante, in cui i giornalisti sono stati in buona sostanza passivi, si è verificato in Francia, nello stesso periodo. Siamo a La-Selle-sur-le-BIed; è il 10 settembre 2012. Quella sera il marito di Jacqueline Sauvage, 65 anni, torna a casa, la trascina per i capelli in cucina e le dice: “Sta’ zitta e prepara la cena”. Lei obbedisce, prende una pillola per dormire, va a letto. Dopo solo due ore si sveglia, prende un fucile e spara al marito alle spalle. Poi telefona al figlio, che non risponde perché due giorni prima si è suicidato, non sopportando le umiliazioni a cui il padre lo sottoponeva. Al dibattimento, le tre figlie denunciano le violenze sessuali del padre, che ha forse abusato anche del figlio maschio.

Al processo si decide che non è applicabile la “legittima difesa indiretta” che pure, nel 1989, aveva portato all’assoluzione – dopo un giorno solo di processo – la diciassettenne Ida Beaussart che aveva ucciso nel sonno il padre, violento neonazista, per impedirgli di ammazzare, il giorno dopo, l’altra sua figlia. La pubblica accusa chiede allora per Jacqueline Sauvage il minimo della pena, 10 anni. Al minimo della pena la condanna la Corte d’assise, con giuria popolare, in primo e secondo grado. La Cassazione conferma.

È dopo la sentenza che si scatena la “giustizia parallela” (e non una sacrosanta critica del procedimento e della sentenza). Le avvocate di Jacqueline Sauvage costruiscono un caso centrato sulla violenza – innegabile, inaccettabile – del marito sulla donna, che diventa quindi un simbolo della lotta alla violenza maschile. L’obiettivo è la grazia, che poi François Hollande, un presidente non entusiasta di questo istituto, le concede prima parzialmente, poi in modo totale, scatenando le critiche dei magistrati. La rete tv Tf1 produce due anni dopo, con la consulenza delle legali, anche un docufilm, intitolato Jacqueline Sauvage, c’était lui ou moi.

A questo punto interviene però l’avocat-général, l’accusatore di Jacqueline Sauvage. Frédéric Chevallier scrive una lettera aperta su Le Monde, e si rivolge alla donna, spiegando a tutti che ben diversa era la situazione così come era emersa durante il processo. Jacqueline Sauvage, racconta, non era una persona debole, ma una donna molto determinata, che guidava l’azienda di famiglia, aveva accesso a sei conti correnti (di cui due, effettivamente, bloccati dal marito per conflitti familiari). Nella casa, racconta, erano state trovate dodici armi da fuoco e centinaia di munizioni. Il fucile usato dalla donna era suo personale. Non solo: quando Jacqueline Sauvage era venuta a sapere del tradimento del marito, aveva “brutalizzato”, dice Chevallier, la rivale. Le cronache del processo sono più precise: l’aveva affrontata con una pistola in pugno, e l’aveva inseguita fino alla Gendarmerie, dove la vittima si era poi rifugiata.

La reazione delle avvocate è stata furiosa. Sempre su Le Monde, Janine Bonaggiunta e Nathalie Tomasini scrivono: “Signor accusatore pubblico, come osa scrivere una lettera a Jacqueline Sauvage sulla stampa, due anni dopo la sua liberazione? Le vostre intenzioni sono di un’indecenza senza pari”.

L’elemento chiave di questa vicenda è che la “giustizia parallela” si svolge sui media, ma con un ruolo passivo dei giornalisti. Si può raccontare anche il caso da poche settimane tornato di attualità dei fratelli Lyle e Erik Menéndez, che nel 1989 uccisero il padre, che li avrebbe violentati, e la madre, ereditando 14 milioni di dollari. Il primo processo fu trasmesso integralmente in televisione e si concluse senza un verdetto: la giuria non raggiunse l’unanimità. Un secondo li condannò all’ergastolo. Oggi, dopo una serie Netflix, lanciata a settembre e un docufilm, lanciato sempre su Netflix a ottobre, con le testimonianze dei fratelli che correggono le presunte “distorsioni” dei telefilm, il procuratore George Gascon ha annunciato che rivedrà le decisioni prese in passato aprendo così la porta alla libertà condizionale finora negata. Anche in questo caso, tutto avviene sui media, ma non con il coinvolgimento dei giornalisti e della loro mediazione.

Anche in Italia, per protestare contro la “giustizia mediatica” si evocano spesso quei plastici televisivi che avevano quasi lo scopo sostituire l’esame delle prove in dibattimento. Possiamo dimenticare che, in almeno un caso quella forma di “giustizia parallela” faceva parte della strategia difensiva di un avvocato?

Per correggere gli inconvenienti della “giustizia parallela” c’è un terreno comune tra magistrati, avvocati e giornalisti: il terreno della realtà dei fatti, della verità, distinta dalla narrazione, che alimenta la demagogia giustizialista.

Per noi giornalisti il richiamo alla realtà diventa sempre più importante. Si pensi al ruolo dell’intelligenza artificiale, a come può essere usata per distorcere le cose: la funzione fondamentale dei giornalisti, quelli di fare da mediatori tra la realtà e il grande pubblico, ne esce esaltata. Appare anche una funzione nuova, quella della traduzione culturale, quanto mai necessaria quando si tratta di informare i cittadini, che siano medici di altissimo valore o addetti delle pulizie, sulla realtà di un mondo altamente specializzato come quello del diritto.

Occorre però far parlare davvero la realtà. Quale lezione è stata, durante un recente corso sulla Giustizia riparativa, ascoltare un docente universitario, Roberto Cornelli, criminologo all’Università di Milano, che invitava a parlare delle vittime “in carne e ossa” proprio mentre, nel dibattito che si era aperto, noi giornalisti parlavamo delle vittime sovrapponendo loro le nostre aspettative, l’”archetipo della vittima”. Quella vittima che i giuristi, giustamente, chiamano “persona offesa”, quasi a purificarla da ogni connotazione non processuale.

Il rischio – ed è un rischio che noi giornalisti forse non abbiamo messo a fuoco – proprio è quello di sovrapporre alla realtà una narrazione. Non è infrequente sentire giornalisti dire che sono alla ricerca non di notizie, di fatti, ma di storie. Non è un approccio “innocuo”, non nella cronaca giudiziaria. Le storie, le narrazioni, hanno una logica, a volte un’“estetica”, che la realtà non ha.

Non c’è realtà che si presta maggiormente a essere trasformata in una macchina narrativa di un processo. I giuristi americani considerano il film “My cousin Winnie”, “Mio cugino Vincenzo”, con Joe Pesci e Marisa Tomei, un esempio di come mostrare correttamente le tecnicalità di un processo: è un racconto di per sé quasi caricaturale di una vicenda giudiziaria, ma non per questo poco rigoroso.

La ricostruzione della realtà è altra cosa dalla narrazione. I fatti sono fatti, non funzioni narrative; e il linguaggio, che è lo strumento con cui abbiamo accesso ai fatti, deve essere rigoroso. Non c’è spazio per l’estetica. La precisione del linguaggio deve diventare, pur nella diversità dei compiti, un patrimonio comune tra mondo del diritto e mondo dell’informazione.

La necessità della precisione del linguaggio emerge con chiarezza sul tema della presunzione di innocenza o, meglio, di non colpevolezza. Cosa significa quel “è considerato innocente”? Perché un verbo di pensiero, “considerare”? Siamo obbligati a pensare tutti in un certo modo? Siamo obbligati a essere innocentisti, come qualche avvocato ha argomentato? Come si potrebbe ricostruire la realtà, senza un’ipotesi di reato e di colpevolezza, da confutare, magari? I costituenti, che pure hanno votato l’articolo 27, consideravano la formula della presunzione di innocenza poco rigorosa, più politica che tecnica. Una formula che rinviava almeno a due principi sacrosanti ma più concreti, il divieto di comminare sanzioni, di esercitare una violenza, senza una sentenza – salvo le eccezioni previste dalle leggi – e il principio in dubio pro reo, che potrebbe diventare anche una regola per i giornalisti.

La precisione del linguaggio permette di evitare equivoci, di non porsi obiettivi irrealistici. Non si parla di presunzione di innocenza nel codice etico dei giornalisti americani, dove semplicemente si chiede di “bilanciare il diritto di un sospettato a un processo equo con il diritto del pubblico a essere informato”; e di “considerare le implicazioni dell’identificazione dei sospettati di reato prima che affrontino accuse legali”. Un’altra norma del codice etico Usa, non irrilevante nel nostro discorso, chiede di “riconoscere che l’accesso legale alle informazioni è una cosa diversa da una giustificazione etica per pubblicare o trasmettere”.

Come “andare oltre”, superare queste ambiguità, non è però immediato, se l’obiettivo è quello di decostruire la presunzione di colpevolezza che sembra invece dominare nella società, evitare insomma che la frase “giustizia è fatta” sia pronunciata – come notava Adam Smith già nel Settecento – soltanto in caso di condanna.

Per fare un passo avanti può forse aiutare una vecchia regola pratica, nobilitata però da filosofi come Immanuel Kant e, nel caso del diritto, da Johann Gottlieb Fichte: mettiamoci idealmente al posto degli altri. Non soltanto, come pure ci viene naturale, al posto delle vittime e dei loro cari, ma anche al posto dell’accusato, considerandolo appunto innocente, dell’avvocato e, soprattutto, dei giudici. È una regola pratica, di metodo, che non può diventare forse una norma deontologica: tuttavia aiuterebbe molto.

Il nostro obiettivo è infatti ambizioso. È quello di evitare che il divieto di diffondere informazioni sia considerato una soluzione. Nel silenzio parla il silenzio, ossia il caso: nessuno più è responsabile. Se la patologia del sistema italiano, come si dice, è davvero nel rapporto troppo stretto tra Procure e giornalisti, tra forze dell’ordine e giornalisti, la soluzione non può che essere nel fornire a tutti le stesse informazioni di base, e permettere le conferenze stampa, dove il procuratore non può che essere trasparente, responsabile, accountable.

Il quadro normativo che invece ci regola oggi è, in un confronto internazionale e alla luce della giurisprudenza europea, molto penalizzante. Una strada alternativa, nel rispetto delle norme vigenti, è aperta dal Documento per la corretta informazione giudiziaria siglato dalla presidenza della Tribunale di Milano, dalla Procura dello stesso tribunale, dall’Ordine degli avvocati, dalla Camera penale e dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Rende più facile la consegna delle Ordinanze dei magistrati giudicanti attraverso l’articolo 116 del codice di procedura penale. Questa norma prevede che “durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti”. Un decalogo allegato al Documento siglato a Milano reinterpreta ora la nozione di “interesse” in modo da venire incontro alle esigenze dell’informazione e del diritto di informazione. È inoltre prevista la possibilità, per il giudicante, di illustrare le sentenze, il cui dispositivo è molto tecnico e nulla dice della razionalità delle decisioni, prima della pubblicazione delle motivazioni.

Non è un documento risolutivo, ma la direzione è giusta, e la speranza è che l’iniziativa possa essere imitata da altri distretti. L’Ordine nazionale dei giornalisti lo sta promuovendo presso la Procura generale e la presidenza della Corte di Cassazione, presso il Consiglio nazionale forense e l’Unione delle Camere penali. Alcuni Ordini regionali lo stanno presentando alle Procure locali.

Analogamente, e parallelamente, occorre una maggiore competenza dei giornalisti in materia di procedura penale. L’Association de la presse judiciaire, fondata in Francia nel 1887 e ancora molto attiva, era temutissima per lo spessore dei suoi iscritti. Questo deve essere il livello a cui dobbiamo puntare. Due dei suoi promotori, Raymond Poincaré e Alexander Millerand, entrambi cronisti giudiziari – abilitati a esercitare anche la professione legale – sono diventati presidenti della repubblica. In Lombardia, per aumentare le competenze dei giornalisti abbiamo predisposto un toolbox in formato digitale, a disposizione dei colleghi, che spiega cosa sia il processo penale. È stato realizzato in collaborazione con la Camera penale di Milano e con il dipartimento di diritto penale Cesare Beccaria dell’Università di Milano.

C’è quindi un possibile percorso comune da fare, tra giornalisti e giuristi. Non sarà facile. Giustizia e informazione sono strutturalmente diversi: il giornalismo è rapido, mentre la giustizia è necessariamente lenta; il giornalismo ha uno sguardo ampio, esamina i fatti che emergono dalle indagini e dai dibattimenti sotto molti punti di vista – politici, sociali, etici – mentre la giustizia ha uno sguardo profondo, e ha un ideale di purezza che l’informazione può, per così dire, macchiare. La sfida, quasi la provocazione, che ci pongono le società contemporanee è però proprio questa: la provocazione della coesistenza di sguardi diversi, che a volte possono anche creare frizioni e conflitti.

RICCARDO SORRENTINO

Riccardo Sorrentino, 60 anni, è un giornalista del Sole 24 Ore. Dopo aver frequentato la scuola di giornalismo Walter Tobagi è stato assunto nella redazione Finanza del quotidiano economico nel 1992. Dal 1999 è nella redazione di politica ed economia internazionale (a parte un’esperienza in Commenti e inchieste dal 2010 al 2013). SI occupa di macroeconomia e di politica monetaria, oltre che della politica e dell’economia della Francia.
Ha acquisito competenze certificate in data journalism, data science e, con il Fondo monetario internazionale, su diversi temi macroeconomici. Per tre mandati non consecutivi è stato componente del Comitato di redazione del Sole 24 Ore, ed è stato estensore e relatore del Codice di autodisciplina dei giornalisti del quotidiano. È stato anche componente del consiglio direttivo dell’Associazione lombarda dei giornalisti. Ex pilota di aliante, è nato a Torre del Greco nel 1964.
È il papà di Nausicaa.

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