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La tempesta di sabbia e lo struzzo
Marco Pratellesi
Giornalista e docente di Giornalismo digitale
1. La profezia (calcolata) di Meyer
Come, quando e perché il giornalismo ha perso rilevanza nella formazione dell’opinione pubblica?
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Il calo dei lettori nel tempo secondo Philip Meyer
In un saggio del 2004, Philip Meyer, considerato il padre del data journalism, analizzò i dati del General Social Survey relativi alla fiducia dei lettori nella stampa americana tra il 1972 e il 2002. Dai numeri emergeva una tendenza media in calo di 0.6 punti percentuali annui. Poi incrociò questi stessi dati con le abitudini di lettura dei quotidiani. Il declino, in questo caso, era di poco superiore a 0.95 punti percentuali l’anno. La tendenza, dal 1960, era univoca: al passare del tempo diminuiva la rilevanza. La conclusione, proiettando i dati negli anni successivi, fu tutt’altro che rassicurante: l’ultima copia di un quotidiano stampato sarebbe stata gettata nel cestino dei rifiuti nel primo trimestre del 2043.
La profezia di Meyer (che altro non era che l’estrapolazione di una linea di tendenza dedotta dai dati storici) fu ritenuta eccessiva. Il dibattito che ne nacque, anche sui giornali italiani, era sostanzialmente incentrato su una fideistica contro-profezia: “I giornali non moriranno mai”. In quell’anno, il 2004, la tiratura media giornaliera dei quotidiani in Italia era di 7.921.414 di copie (-1,75% su 2003) e le vendite fecero registrare una media di 5.617.620 copie giornaliere (-1,63%). Una flessione accettabile se si considera che i ricavi della pubblicità furono 1.401.492.046 e quelli delle vendite 1.721.944.898, entrambi in crescita rispetto all’anno precedente (+1,41% e +8,19%). Complessivamente gli editori avevano portato a casa 3.123.436.944 di euro, facendo registrare un +5,04% sul 2003 (fonte Fieg).
Secondo l’Osservatorio Agcom, nel primo semestre 2024 in Italia i quotidiani hanno venduto in media giornalmente 1,31 milioni di copie, in flessione su base annua del 9,2% e del 32,3% nel periodo 2020-2024. Come se non bastasse anche le copie digitali non godono di buona salute avendo fatto registrare un -8,7% sull’anno precedente e un -6,4% rispetto al periodo 2020-2024.
Secondo Meyer, il problema della perdita di rilevanza dei giornali era abbastanza semplice e doveva essere ascritto, principalmente, al ricambio generazionale. Sempre sulla base dei dati, le indagini sugli indici di lettura dei giornali attestavano un progressivo calo rispetto a quattro generazioni: i nati prima del 1928 erano i più assidui lettori di quotidiani, seguiti dalla generazione tra il 1929 e il 1945 e dai boomers (1946-1964), che avevano fatto registrare un calo significativo ma non così preoccupante come quello registrato tra i nati dopo il 1964. Secondo le analisi, i boomers erano l’ultima generazione educata alla lettura del quotidiano. La rottura generazionale parte quindi prima di internet e dei social media, ed è da collegarsi anche alla tendenziale scomparsa dei partiti politici come strumento/opportunità di mobilitazione: comincia a farsi strada, soprattutto tra il pubblico giovane, l’idea che la politica sia diventata un mestiere prossimo al malaffare e che sia meglio dedicarsi all’ambiente o al volontariato.
Nonostante tutti gli indici fossero sfavorevoli, gli editori si sono a lungo cullati nell’illusione che le giovani generazioni, che non leggevano i giornali, sarebbero state recuperate all’acquisto del quotidiano con l’avanzare dell’età. Così non è stato, come sappiamo.
In un libro uscito sempre nel 2004, David T. Z. Mindich, professore di giornalismo al Klein College of Media and Communication della Temple University, evidenziava come fino agli anni Sessanta i giovani fossero informati sulle notizie e sulla politica sostanzialmente come i propri genitori. Un’abitudine che in seguito sarebbe declinata drammaticamente. Anche nell’analisi di Mindich parlavano i dati: nei primi anni Duemila, oltre il 70% degli americani adulti leggeva un giornale ogni giorno, un’abitudine che si era consolidata quando erano giovani. Viceversa, meno del 20% dei giovani era interessato alle news. Peggio: i dati analizzati nel saggio evidenziavano che l’abitudine alla lettura del quotidiano non incrementa significativamente con l’età. Le conclusioni di Mindich erano tutt’altro che rosee: i lettori di news si formano entro i venti anni o difficilmente si accosteranno al quotidiano crescendo.
Quando Meyer e Mindich scrivevano i loro saggi (2004), internet era ancora nella fase Web 1.0 e gli editori avevano mantenuto il controllo dell’informazione sulle loro piattaforme digitali. Le cose sarebbero ulteriormente cambiate con il Web 2.0, caratterizzato dalla nascita e dalla progressiva espansione dei social network: Facebook (2004) e Twitter (2006) in primis. La strada migliore per assicurare un futuro ai giornali sarebbe stata fare il possibile per conservare la loro influenza nella società e nella formazione dell’opinione pubblica, investendo in una radicale sperimentazione e innovazione nei new media, puntando sulla qualità e l’originalità, fosse essa diffusa con la vecchia carta o con nuove piattaforme digitali. Ma così non è stato. Negli ultimi 20 anni, gli editori hanno risposto al crollo di vendite, abbonamenti e pubblicità con tagli del personale e degli investimenti tecnologici. Nessuna innovazione è maturata nell’editoria che ha cercato, di volta in volta, di adattarsi alle nuove tecnologie digitali con risultati non sempre soddisfacenti. Il risultato è quello che vediamo oggi: giornali sostanzialmente uguali, poco originali, dove la battaglia per le news ha lasciato il campo a quella per gli schieramenti politici e all’intrattenimento.
Eppure, qualche eccezione c’è stata. Una pietra miliare nel cambio di prospettiva nella narrazione digitale è stata scritta dal New York Times nel 2012. «Snow Fall. The Avalanche a Tunnel Creek» è la ricostruzione multimediale della valanga che il 19 febbraio 2012 travolse un gruppo di sciatori esperti. Una narrazione longform, scritta da John Branch coadiuvato da un team di 11 colleghi tra grafici, designer, ricercatori, fotografi, video maker. Sei mesi di lavoro per produrre testo, audio, clip, video, foto, animazioni, mappe tridimensionali. Sei mesi di lavoro e un premio Pulitzer vinto nel 2013. Certo, si potrà obiettare che si tratta di un formato costoso, non alla portata di tutte le aziende editoriali.
Ma questo lavoro segna una svolta anche nella politica editoriale del New York Times: nell’era della riproducibilità istantanea, del copia-incolla diffuso, il giornale aveva creato una forma di narrazione di cui tutti gli altri giornali hanno parlato, ma che nessuno ha potuto copiare. La dimostrazione che una nuova forma di narrazione digitale, fatta di qualità, approfondimento, originalità e sperimentazione, è possibile. Un percorso che fa quadrare rilevanza e conto economico: l’azienda ha superato gli 11 milioni di abbonati digitali nel terzo trimestre 2024 con una crescita dell’8,8% dei ricavi da Adv digital. Nei bilanci 2023 la società ha registrato 129 milioni di dollari di profitto con un valore mensile medio per abbonato digitale a 9,24 dollari, in crescita del 3,5% rispetto all’anno precedente. Un trend positivo iniziato con la trasformazione digitale avviata più di 10 anni fa.
2. La grande illusione
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The Economist – Copertina 26 Agosto 2006
Nel 2006 due autorevoli settimanali internazionali si passarono la palla con una domanda e una risposta. Il 26 agosto, The Economist dedicò la copertina alla crisi dei giornali con un titolo affatto incoraggiante: «Who Killed the Newspapers?». Il quotidiano non era ancora il morto, ma già si indagava sul possibile assassino: «L’attività commerciale che ha mantenuto il loro ruolo nella società – vendere parole ai lettori e vendere lettori agli inserzionisti – sta andando a pezzi. Tra tutti i “vecchi” mezzi di comunicazione, i giornali sono quelli che più hanno da perdere dalla crescita di internet».
La crisi cominciava a farsi più evidente e gli editori per ridurre i costi iniziarono a tagliare gli investimenti sul giornalismo di inchiesta, di politica interna e internazionale, nella speranza di attrarre i lettori giovani puntando soprattutto sugli articoli di intrattenimento. «L’editore del Philadelphia Inquirer, Brian Tierney, – riportava il settimanale britannico – ha notato che agli utenti del sito web del giornale è piaciuto moltissimo un video in cui la caramelle Mentos facevano esplodere una bottiglia di Diet Coke da due litri: “Online dovremmo mettere più cose del genere”», era la conclusione dell’editore. Con buona pace dell’autorevolezza e della rilevanza dell’informazione.
Una risposta più decisa alla domanda posta dell’Economist, «Chi ha ucciso i giornali?», arrivò pochi mesi dopo dal settimanale Time che dal 1927 ogni anno incorona la persona che, nel bene o nel male, più ha contribuito a influenzare milioni di altri individui. Sulla copertina dell’ultimo numero del 2006 c’era un computer con uno schermo a specchio che rifletteva l’immagine del lettore mentre guardava il settimanale. Sopra spiccava l’occhiello «Persona dell’anno 2006».
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Time 2006 – Persona dell’anno
Nessuno, secondo Time, quell’anno aveva avuto più influenza dell’utente di internet che usa o crea contenuti nella Rete. L’immagine del lettore specchiata in copertina spiegava il direttore del settimanale, Richard Stengel, riflette «l’idea che voi, non noi, state trasformando l’era dell’informazione». A due anni dalla nascita di FaceBook e mentre Twitter muoveva i primi passi, era la consacrazione del Web 2.0.
Che cosa era successo? I social network, con i tasti “pubblica” e “condividi”, stavano cambiando le regole del gioco: l’informazione che circola in Rete non è più affidata esclusivamente ai professionisti dei media, ma anche a chiunque abbia una connessione internet e qualcosa da dire. Questo sì è stato un cambiamento epocale nella rilevanza della professione: per la prima volta il rapporto tra la fonte e il lettore non era necessariamente legato all’intermediazione giornalistica. Un altro pezzo di esclusività professionale e sociale se n’era andato.
«Poiché i social network hanno amplificato la velocità e la portata con cui le opinioni possono essere condivise e modificate, hanno introdotto nuove dinamiche di influenza reciproca e hanno reso più complesso il ruolo dei media tradizionali nella formazione dell’opinione pubblica» (Benanti 2024, p. 116). Nel primo decennio del secolo, l’azione combinata di social media e smartphone ha catturato l’attenzione delle persone, trasformando la società dei mass media nell’era dei personal media, rivoluzionando il modo di fare politica e informazione.
“Se sempre più utenti stanno sui social media è lì che dobbiamo portare i nostri contenuti”, era diventato il nuovo mantra degli editori a caccia dei lettori perduti. Il primo a puntare fortemente sui social è stato l’Huffington Post, fondato nel 2005 da Arianna Huffington, che sottoscrisse un accordo con Facebook. Le notizie distribuite sulla piattaforma di social network fecero effettivamente aumentare sensibilmente il traffico del sito di informazione americano, fino a superare, nel settembre 2009, con 9,4 milioni di utenti unici il sito del Washington Post (9,2). Ma l’idea che dai social media sarebbero arrivati nuovi utenti e quindi più rilevanza e pubblicità ai siti di news si è rivelata con il tempo la grande illusione dell’editoria.
Le grandi piattaforme, da Amazon a Google e Facebook, tendono al monopolio e i monopolisti, da quando il mondo è mondo, non amano condividere adeguatamente i proventi con gli altri. E non è solo una questione di redistribuire i ricavi nella catena del valore. Fare prevalere l’indignazione rispetto alla verità è un modello di business che abbiamo imparato a conoscere, visto che da decenni sostiene Facebook e tante altre piattaforme digitali. Se affidiamo agli algoritmi la missione di creare coinvolgimento tra le persone, non c’è da stupirsi se poi, sulla base di milioni di dati estratti dagli utenti, gli algoritmi imparano che una buona parte (maggioritaria?) degli esseri umani si lascia coinvolgere più dalle teorie complottistiche e dall’incitamento all’odio che dai discorsi di ricerca della verità.
Anche la recente decisione di Mark Zuckerberg, che ha annunciato tra le novità del 2025 l’abolizione dei fact-checker indipendenti della piattaforma, va in questa direzione. «È tempo di tornare alle nostre radici sulla libertà di espressione», ha spiegato l’imprenditore.
Ma il diritto ad avere le proprie opinioni non può essere scambiato per il diritto ad avere anche i propri fatti. Un fatto è un fatto e, almeno su questo, la disinformazione non dovrebbe essere tollerata. L’informazione è un’altra cosa. Per dirla con le parole del filosofo Byung-Chul Han, «L’informazione è il medium del reporter che gira il mondo in lungo e in largo alla ricerca di novità» (Han 2024, p. 14). Forse troppo spesso i giornali, sommersi anch’essi dalle notizie che circolano in rete, si sono dimenticati di questa pratica fondativa della professione: andare, vedere, raccontare.
Affidare il proprio futuro a piattaforme delle quali non si ha il controllo non sembra proprio una buona idea. E oggi possiamo dire che sono i social media ad aver cavalcato il giornalismo fino a quando ne hanno avuto un beneficio, non il contrario.
3. Intelligenza umana e agenti artificiali
L’utilizzo di modelli di intelligenza artificiale applicata al giornalismo non è una novità così recente. Negli Stati Uniti, in Cina, ma anche in alcuni Paesi europei, la sperimentazione è iniziata oltre dieci anni fa. Testate come Associated Press, Wall Street Journal, Bbc, Reuters, Financial Times o Xinhua, per citarne alcune, hanno ottenuto risultati soddisfacenti in tutti i campi del workflow giornalistico: dal newsgathering alla produzione automatizzata di notizie e alla distribuzione dei contenuti. Non c’è dubbio che il futuro della professione sarà sempre più determinato da una collaborazione tra l’uomo e la macchina: una strada da percorrere, necessaria per aiutare i giornalisti a migliorare la qualità dell’informazione e gli editori a ritrovare una sostenibilità economica senza la quale il destino della professione sembra avviato verso una progressiva, ineluttabile irrilevanza.
Affinché le cose vadano per il verso giusto, è però necessario che questa collaborazione uomo-macchina, che richiede investimenti in capitale umano e tecnologico, sia ben guidata dai protagonisti: giornalisti e editori coadiuvati da un adeguato reparto di Information Technology. Gli algoritmi programmati per l’informazione non rimpiazzano le capacità più importanti dei redattori, ma li aiutano ad andare più a fondo nel proprio lavoro, aumentando le potenzialità e la qualità del giornalismo e il rapporto con i lettori. «L’intelligenza artificiale può potenziare – non automatizzare – il settore, consentendo ai giornalisti di dare più notizie più rapidamente, e liberando contemporaneamente il loro tempo per dedicarsi ad analisi più approfondite» (Marconi 2020, p. XI).
Gli esempi di buone pratiche che hanno contribuito ad ampliare la rilevanza del giornalismo non mancano. L’Associated Press utilizza gli algoritmi dal 2014 per trasformare i dati finanziari in articoli automatizzati. L’AI estrae dai report delle aziende quotate i dati rilevanti e li trasforma in articoli di agenzia. Questa procedura ha permesso di passare dalle circa 300 aziende analizzate dai giornalisti alla copertura di oltre 4400 società quotate. I giornalisti che prima riportavano gli andamenti finanziari non sono stati licenziati, ma, liberati da un lavoro ripetitivo, sono impiegati per le analisi e gli approfondimenti dei casi più significativi emersi dalle news automatizzate. Cioè, la quinta W: Why, le altre le fa la macchina, in alcuni casi pure meglio.
In Italia, la prima sperimentazione di testi automatizzati è stata fatta dall’Ansa nell’aprile 2020. In piena emergenza Covid, grazie al modello di AI della società americana AppliedXL, l’agenzia è stata in grado di trasformare quotidianamente i bollettini della Protezione civile sull’andamento della pandemia nelle regioni italiane in altrettanti articoli, con tanto di titolo, sommario e grafico senza alcun intervento dei redattori che così potevano essere utilizzati per compiti più specifici, come interviste agli esperti e analisi approfondite.
La scrittura automatizzata di articoli può essere utile anche nei casi in cui una testata non abbia sufficienti risorse per produrre determinati contenuti, come quelli iper-locali. Un esempio è il progetto RADAR (Reporters And Data And Robots), lanciato nel 2017 dall’agenzia multimediale britannica Press Association (PA). Un servizio data driven che, grazie a un modello di Natural language generation (NLG), produce articoli di cronaca locale estratti da dataset aperti, come l’Office for National Statistics e il National Health Service. Anche in questo caso, l’elemento umano rimane fondamentale. L’agenzia ha infatti assunto nuovi giornalisti che si occupano dell’identificazione dei set di dati, della loro qualità, della revisione, validazione e editing dei testi.
Gli algoritmi si sono rivelati un aiuto fondamentale anche nel giornalismo investigativo. L’analisi automatizzata di un enorme dataset ha reso possibile l’inchiesta sui Panama Papers, condotta nel 2016 da The International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ). Senza l’aiuto dell’intelligenza artificiale sarebbe stato impossibile per i giornalisti trovare le connessioni in 11,5 milioni di documenti per 2,6 terabyte di dati: la più grande fuga di notizie di sempre che ha coinvolto 214.000 società offshore e 14.000 personaggi tra i quali 143 politici e 11 Capi di Stato.
Questi esempi, e se ne potrebbero fare molti altri, dimostrano come l’intelligenza artificiale possa contribuire ad aumentare la rilevanza del giornalismo nella società e nell’opinione pubblica.
Tuttavia, per la prima volta nella storia dell’umanità, ci troviamo davanti a una tecnologia in grado di creare contenuti talmente ben realizzati da sfuggire alla capacità umana di distinguerne le origini. E questo comporta anche dei rischi. Alcuni editori vedono nell’AI un’opportunità di creare siti di informazione interamente alimentati dall’intelligenza artificiale. Non è un mistero, e c’è chi già lo fa.
Per questo è fondamentale che chi fa informazione di qualità usi sempre la massima trasparenza sull’utilizzo dei modelli di intelligenza artificiale. Tutte le principali testate internazionali, da Associated Press a The Guardian e Wall Street Journal, si sono dotate di alcune regole basilari che contemplano l’obbligo di indicare quando gli articoli sono produzioni automatizzate o comunque realizzati dal giornalista con l’ausilio degli algoritmi. Anche in questo caso la posta in gioco è la credibilità del giornalismo nei confronti dei propri lettori. L’AI in redazione può funzionare a patto che rispetti i principi fondamentali del giornalismo: verità e trasparenza. In un mondo dove l’informazione sarà sempre più popolata da contenuti prodotti da agenti artificiali anche sapere chi ha fatto cosa ha un peso nella rilevanza e nella credibilità dell’informazione.
Un altro aspetto di criticità è la cessione di contenuti proprietari alle grandi piattaforme, i nuovi monopolisti della AI. Molti editori internazionali, ma anche in Italia Corriere e Repubblica, hanno sottoscritto accordi con OpenAI per permettere a ChatGPT di addestrarsi con i propri contenuti in cambio di soldi e, ancora una volta, nella speranza di avere un ritorno di traffico dalla citazione linkata della fonte. Ma se il modello di business dei referral non ha funzionato con i social media come potrà funzionare con l’AI che già fornisce risposte alle domande che gli utenti potrebbero ritenere esaustive? E non è solo questo. Se possiamo chiedere a ChatGPT di scrivere un articolo nello stile e tono di voce di una determinata testata o di uno specifico giornalista, quale sarà la rilevanza futura del giornalismo?
Da anni gli analisti sostengono che i dati sono il petrolio del Terzo Millennio. Lo si condivida o meno, gli articoli e i contenuti prodotti dalle aziende editoriali nel corso di secoli sono senza dubbio un bene prezioso. Lo stile di una testata e dei giornalisti che vi scrivono è un valore che dovrebbe fare la differenza e che forse dovrebbe essere protetto e difeso con maggiore accortezza. Di accordi poco lungimiranti con le Big Tech se ne sono già visti nella pur breve storia dell’era digitale. E su chi ne abbia tratto il maggior profitto possono esserci pochi dubbi.
Siamo sicuri che affidare la propria informazione – passata, presente e futura – a piattaforme che appiattiscono tutto sia la strada verso un giornalismo più rilevante e di qualità?
Non è che ci troviamo di fronte all’ennesimo abbaglio di un’editoria incapace di trovare al proprio interno le risorse per rialzarsi e per svolgere quel ruolo da cane da guardia dei poteri indispensabile per la salute delle democrazie?
Forse sarebbe il caso di fermarsi a riflettere.
Lo hanno fatto alcune grandi testate, come il New York Times e un gruppo di media canadesi, che hanno citato in giudizio OpenAI con cause miliardarie per violazione del copyright, accusando la società di aver utilizzato gli articoli per addestrare il proprio modello di AI. Tutti gli esempi di buone pratiche di automazione che abbiamo citato in precedenza hanno una caratteristica comune: sono applicazioni di AI integrate nel workflow quotidiano della redazione, studiate, pensate, realizzate per risolvere problemi specifici nel rispetto della deontologia e dell’etica della professione. Nel rispetto dello stile e del tono di voce costruiti in lunghi anni di impegno quotidiano dei giornalisti che ci lavorano e ci hanno lavorato.
La battaglia per il futuro del giornalismo si combatte sulla qualità e rilevanza dell’informazione che siamo in grado di offrire al lettore, non importa su quale piattaforma. Se perderemo entrambe saremo inevitabilmente travolti da una valanga: il rumore di fondo di un flusso di informazioni dentro al quale sarà sempre più difficile prendere una decisione o semplicemente scegliere su cosa focalizzare l’attenzione.
MARCO PRATELLESI
Giornalista e docente di Giornalismo digitale e Intelligenza Artificiale all’Università Lumsa di Roma, è stato vicedirettore di Oggi, condirettore di Agi, ha diretto i siti di varie testate, tra le quali il Corriere della Sera, L’Espresso, La Nazione, il Resto del Carlino, il Giorno, Qn. È stato Direttore editoriale dell’area digital di Condé Nast. E’ autore di vari saggi e del manuale di giornalismo New Journalism. Dalla crisi della stampa a giornalismo di tutti, Bruno Mondadori 2013.
Ha lavorato per due startup di Intelligenza artificiale: come Senior Strategy Advisor dell’americana AppliedXL e come Senior Vice President dell’italiana Asc27
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