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I sentimenti non si curano dei fatti - Ordine Dei GiornalistiOrdine Dei Giornalisti

Ordine dei Giornalisti - Consiglio Nazionale

I sentimenti non si curano dei fatti

13/02/2025

immagine realizzata con IA Midjourney

"LA RILEVANZA"

REPORT 2025
Scenari e prospettive

I sentimenti non si curano dei fatti

Gabriel Kahn
Docente di giornalismo – Università Sud California

Il giornalismo investigativo negli Stati Uniti sta attraversando un periodo di successi.

Uno degli scoop più recenti ha rivelato come alcuni miliardari, tra cui Elon Musk, siano riusciti a non pagare tasse sul reddito (legalmente!).
Un altro ha svelato che Donald Trump ha avuto diverse conversazioni con Vladimir Putin, anche dopo l’invasione dell’Ucraina, mentre non era più in carica.

In precedenza, l’inchiesta sul pagamento in nero a una pornostar prima delle elezioni del 2016 ha portato alla sua condanna per 37 reati lo scorso anno.

Quando gli americani sono andati alle urne lo scorso novembre, avevano davanti a sé tanti “fatti”: il ruolo di Trump nel tentativo di sovvertire le elezioni del 6 gennaio, il suo rifiuto di consegnare documenti riservati, persino la sua condanna per violenza sessuale.

Eppure, lo hanno votato comunque.

Possiamo discutere, a elezioni concluse, sui punti di forza e debolezza di ogni campagna elettorale, o su cosa Kamala Harris avrebbe dovuto enfatizzare di più. Ma tutto questo è rumore di fondo. Il vero problema è che i “fatti” non hanno avuto alcun impatto sugli elettori.

l giornalismo ha fatto il suo dovere. A mancare è stata la fiducia del pubblico.
Ed è questo il nodo cruciale: come può funzionare una società quando i fatti non contano più?

Questa è la crisi che stanno vivendo gli Stati Uniti e molte altre nazioni. Nel 1972, un sondaggio d’opinione indicava Walter Cronkite, il celebre conduttore del CBS Evening News, come l’uomo più affidabile d’America. Il sondaggio poteva avere dei limiti, ma rifletteva una verità: con i suoi capelli grigi, i baffi e il tono di voce fermo, Cronkite esercitava un’enorme influenza sul pubblico americano. Al contrario, all’epoca della guerra del Vietnam, una delle istitutizioni con il minor grado di fiducia era l’esercito americano.

Oggi, dopo più di 50 anni, le posizioni si sono invertite: le forze armate godono di grande rispetto, mentre i giornalisti sono ampiamente disprezzati. Molti fattori hanno contribuito a questa inversione di tendenza, ma nessuno da solo può spiegare il crollo della fiducia nel giornalismo tradizionale.

È importante ricordare che fiducia e fatti non sono la stessa cosa. A volte, anzi, sono in contrasto. Il podcaster conservatore Ben Shapiro ha detto una volta: “I fatti non si curano dei tuoi sentimenti”. Il suo intento era sottolineare che i fatti sono testardi e ignorarli è pericoloso.

Ma nel clima informativo attuale, questa frase andrebbe letta al contrario. Come ha osservato Molly Crocket, docente a Princeton e coautrice di uno studio pubblicato su Science, oggi “i tuoi sentimenti non si curano dei fatti”.

Viviamo in un ecosistema dell’informazione dominato dai social media, distribuito attraverso sei piattaforme principali (Instagram, Facebook, TikTok, Snapchat, X, YouTube), di proprietà di cinque aziende (Meta, ByteDance, Snap, X, Alphabet), quattro delle quali si trovano sulla costa della California. In questo contesto, è l’emozione a guidare la diffusione delle informazioni. Mai così pochi avevano avuto il controllo su così tanto.

In questo scenario, il nostro “software umano” – la nostra psicologia – si è scontrato con il “software informatico”. In parole semplici, le persone tendono a condividere e diffondere le informazioni che le fanno arrabbiare. È nella natura umana. Gli algoritmi lo rilevano, amplificano questo meccanismo e ci guadagnano sopra.

Chiunque non abbia vissuto in una caverna nell’ultimo decennio conosce questo fenomeno. Ma oggi un crescente numero di studi scientifici sta misurando l’impatto che queste informazioni negative, cariche di rabbia, hanno sull’arresto dei processi democratici.

Negli Stati Uniti, il paese è politicamente diviso quasi a metà, ma la cosa più grave è che ciascun gruppo vede l’altro come una minaccia esistenziale. Lo stesso accade in molte parti del mondo. In Corea del Sud, l’ascesa degli influencer di estrema destra su YouTube ha spaccato il paese in due, spingendo l’ex presidente a dichiarare la legge marziale, salvo essere fermato dall’opposizione. Questi cittadini vivono nello stesso paese, ma in realtà parallele.

In questo nuovo contesto, le testate giornalistiche tradizionali continuano a produrre notizie, ma il loro impatto sul pubblico è sempre minore. È come se si stessero presentando armati di coltello a uno scontro a fuoco.

L’Edelman Trust Barometer, uno studio condotto da oltre 24 anni da un’agenzia di pubbliche relazioni, ha rilevato che il 64% degli intervistati a livello globale non si fida dei giornalisti. Il 63% non si fida dei politici. Ancora più allarmante è il fatto che le persone considerano “qualcuno come loro” affidabile quanto uno scienziato. (Non c’è da stupirsi che così tanti abbiano rifiutato il vaccino per il covid).

Il valore della fiducia è cambiato, e i media tradizionali si ritrovano con il conto in rosso. Questo non significa che non abbiano commesso errori: hanno ignorato storie importanti, mal interpretato eventi e privilegiato lo scandalo alla sostanza.

È giusto criticarli per questi errori, ma non sono loro la causa principale della crisi di fiducia. Oggi, personaggi con un enorme seguito commettono errori ben peggiori – spesso in modo deliberato – senza subire conseguenze. Trump, per esempio, cambia continuamente posizione sulla politica estera, sull’economia, sull’immigrazione, ma i suoi sostenitori non sembrano curarsene.

In questo nuovo mondo, “influencer” non è solo una parola, ma una vera professione. L’influencer è nato per prosperare in questo ambiente. Le testate giornalistiche, invece, sembrano reliquie del passato che lottano per sopravvivere. Il problema, ancora una volta, non è nei fatti. È nella fiducia.

Renee DiResta, direttrice dello Stanford Internet Observatory, ha spiegato questa differenza nel suo libro Invisible Rulers: i media trasmettono un messaggio, gli influencer instaurano una conversazione.

In un mondo in cui le persone si fidano di un conoscente tanto quanto di uno scienziato, la capacità di dialogare è un vantaggio enorme.

Il lavoro dell’influencer è leggere ciò che il pubblico dice, selezionare i contenuti più rilevanti e amplificarli. Gli influencer sono al tempo stesso élite – per via del loro enorme seguito – e “uno di noi”, perché parlano direttamente con il pubblico. Rispondono ai commenti, ripostano i contenuti dei follower e sembrano sempre accessibili.

“Diventano aggregatori e curatori delle convinzioni della folla”, scrive DiResta.

E le folle non sono guidate dai fatti, ma dalle emozioni. In un mondo dove le emozioni vengono amplificate dagli algoritmi, quale potere hanno ancora coloro che si limitano a riportare i fatti, siano essi rassicuranti o scomodi?

È quello che stiamo cercando di capire.

GABRIEL KAHN

Gabriel Kahn e` professore di giornalismo all’University of Southern California. In precedenza, è stato corrispondente per Europa meridionale dell’Wall Street Journal. Nel 2018, ha fondato, insieme con Prof. Luciano Nocera, Crosstown, che raccoglie e analizza i dati per produrre notizie locali.

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