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Ordine dei Giornalisti - Consiglio Nazionale
02/04/2023
REPORT 2023
Il difficile rapporto tra libertà di espressione e c.d. diritto all’oblio
Guido Scorza
Giornalista e professore di diritto delle nuove tecnologie e privacy
La storia dell’informazione e quella della privacy sono legate a doppio filo sin dalle origini e cioè da quel lontano 1890 nel quale due giuristi americani Samuel Warren e Luis Brandeis scrissero sull’Harvard Law Review “The right to privacy”, teorizzando così il “right to be let alone”, il diritto a essere lasciati soli che avrebbe poi rappresentato l’embrione che ha dato vita al diritto alla privacy moderna.
A ispirare il saggio di Warren e Brandeis, alcuni articoli, che oggi definiremmo di gossip, sulle nozze della figlia del primo, pubblicati dai primi cc.dd. “quotidiani gialli” del tempo, tra i quali il New York World di quel Joseph Pulitzer che sarebbe poi divenuto simbolo del giornalismo di qualità ma che, all’epoca, da editore, pare cedesse spesso alla tentazione di sacrificare la qualità dell’informazione sull’altare delle vendite con titoli, prime pagine, pezzi e immagini sensazionalistiche.
Qualcosa, per la verità, non troppo diverso da quello che accade oggi specie sulle pagine dei giornali digitali.
Da allora privacy e informazione hanno rappresentato due facce della stessa medaglia, due diritti fondamentali alla perenne ricerca di un bilanciamento, di una posizione di equilibrio, di una via di mezzo che non sacrificasse più del minimo necessario la libertà di informazione nella sua duplice accezione – di diritto a informare e a essere informati – né il diritto all’identità personale e alla riservatezza, le due direttrici lungo le quali oggi si sviluppa il diritto alla privacy.
Una sola certezza tra tante incertezze: non esiste, non può esistere, non deve esistere nessun antagonismo dei diritti perché in democrazia, sotto l’ombrello della nostra carta costituzionale non esistono diritti tiranni, non esistono diritti capaci di fagocitare altri diritti pari-ordinati.
Se si parte da qui la relazione, oggettivamente difficile, tra diritto di cronaca – e, poi, diritto alla storia – e diritto all’oblio diventa più facile da spiegare anche se, guai a negarlo, non per questo più facile da gestire, maneggiare e governare.
E in questo esercizio conviene chiarire subito che questa storia non inizia con Internet.
Il problema di garantire a chiunque di noi il famoso “diritto a voltar pagina” e a che la società dimentichi taluni episodi – normalmente spiacevoli e non onorevoli – della propria esistenza per consentirgli di ricominciare se non da zero almeno da uno, esiste da sempre o, almeno, da quando esiste la stampa prima, la radio e la televisione poi.
La giurisprudenza, infatti, si occupa di diritto all’oblio da decenni perché i giudici si sono trovati spesso a pronunciarsi sulla legittimità o meno di dedicare un libro, una serie TV, un film o una puntata di un programma radiofonico al ricordo di storie del passato con questo o quel protagonista negativo, normalmente quanto quest’ultimo o i suoi famigliari si dolevano della circostanza che, così facendo, in tanti avrebbero ricordato qualcosa che su di lui avevano dimenticato e, in tanti, magari, lo avrebbero scoperto, proprio mentre lui stava provando a ricominciare una nuova vita, magari con una nuova famiglia, un nuovo lavoro, in una nuova città.
Internet, però, è innegabile abbia complicato le cose, acuito il problema e reso più difficile la soluzione perché come scrive Viktor Mayer Schonberger, uno dei primi giuristi ad aver approfondito il tema, nel suo “Delete”: “dimenticare è umano ma Internet non vuole dimenticare”.
E, naturalmente, è esattamente così.
L’informazione online si stratifica senza che la nuova cancelli la vecchia e i motori di ricerca, a cominciare da Google, il più usato di tutti, sono stati inventati, progettati e sviluppati esattamente per consentire a chiunque di ritrovare, in pochi click, qualsiasi informazione, indifferentemente, del presente o del passato.
E non c’è dubbio che, allo stato, se Google – e/o uno qualsiasi dei suoi concorrenti – indicizza un qualsiasi fatto del nostro passato che noi vorremmo il mondo dimenticasse, il nostro desiderio, la nostra speranza, la nostra ambizione, difficilmente si realizzeranno.
È il 19 gennaio 1998. Il quotidiano spagnolo La Vanguardia, uno dei più letti di Barcellona, a pagina 23, nella colonna di destra dedicata agli annunci legali, pubblica un avviso di vendita all’asta, per debiti del proprietario verso l’Erario, di un appartamento di 90 metri quadrati al numero 8 di Carrer Montseny.
Il proprietario è tal Mario Costeja Gonzalez, all’epoca un anonimo perito calligrafo galiziano. Leggendo l’annuncio, Mario Costeja non ne è per nulla entusiasta e pensa che parenti, amici e colleghi, se vi si imbattessero, scoprirebbero di quei debiti così a lungo e faticosamente tenuti nascosti. Ma se ne fa una ragione in fretta. In fondo, se quell’annuncio è sul giornale è perché ha commesso un errore, ha fatto un passo troppo lungo e non è riuscito a pagare le tasse. E, soprattutto, è il 1998 e la vita di un giornale di carta dura dall’alba al tramonto. Il giorno dopo ogni traccia di quella sciagurata vicenda sarà già stata ingoiata dal buco nero dell’oblio.
E, in effetti, sarebbe andata proprio così se, nel settembre del 1998, giusto una manciata di mesi più tardi, Larry Page e Sergey Brin, due studenti dell’Università di Stanford, non avessero fondato Google e se, nello spazio di qualche anno, Google non avesse rivoluzionato per sempre il confine del pubblico, del privato e del segreto che preoccupava Costeja Gonzalez, rendendo tutta l’informazione accessibile per davvero al mondo intero.
Accade così che, dieci anni più tardi, nel 2009, Costeja Gonzalez, frattanto diventato un consulente finanziario, gloogando sé stesso si imbatte di nuovo nella famosa pagina 23 de La Vanguardia di quel fatidico 19 gennaio 1998, ormai digitalizzata, pubblicata online dall’editore e indicizzata da Google. La vita dei giornali è cambiata: da un solo giorno, dall’alba al tramonto, all’eternità.
Costeja confessa agli amici di essere disperato. Non c’è persona interessata ai suoi servizi di consulenza finanziaria che, prima di affidarsi a lui, non googli il suo nome, imbattendosi in quel maledetto – almeno per Costeja Gonzalez – annuncio. Affidereste i vostri risparmi a un uomo che, dieci anni prima, si è visto vendere la casa all’asta per non essere riuscito a pagare le tasse?
Inizia così una delle vicende giudiziarie che più di ogni altra ha cambiato la storia del web e, anzi, la storia della storia, o almeno di come la si racconta e si racconterà.
Convinto che quella brutta pagina della sua vita, dieci anni dopo, debba considerarsi definitivamente chiusa, specie dopo la vendita all’asta della sua vecchia casa e l’estinzione del debito con l’Erario, Costeja Gonzalez inizia la sua personalissima guerra contro la memoria di Internet e, naturalmente, Google.
Dopo aver invano cercato prima di ottenere la cancellazione di quell’annuncio dalle pagine de La Vanguardia e, quindi, la deindicizzazione da Google, il 5 marzo del 2010 Costeja presenta un reclamo all’Agenzia per la protezione dei dati personali spagnola contro La Vanguardia, Google Spain e Google Inc. chiedendo giustizia. Il galiziano sente di aver diritto a ottenere, in un modo o nell’altro, di voltar pagina e di fare in modo che quell’episodio del suo passato, peraltro ormai privo di qualsiasi rilievo per il pubblico, resti, appunto, confinato nel passato senza tornare a fare capolino ogni volta qualcuno, per una qualsiasi ragione, digita il suo nome e il suo cognome su Google.
Il 30 luglio 2010 l’Agenzia spagnola per la protezione dei dati personali respinge al mittente le domande avanzate nei confronti de La Vanguardia. Un giornale è un giornale e ciò che prima è cronaca, attualità o annuncio legale poi diviene storia, archivio, strumento di memoria collettiva e nessuno può pretendere di ritagliarlo, smontarlo, cancellarlo o modificarlo. Decide, però, che tocca a Google garantire a Costeja Gonzalez, nel rispetto della disciplina europea sulla privacy, la deindicizzazione del contenuto in questione, a prescindere dalla legittimità della pubblicazione del contenuto medesimo da parte de La Vanguardia o di chicchessia. E ordina a Google di procedere a deindicizzare come richiesto da Costeja. Il primo round lo ha vinto lui.
Big G, il gigante globale dell’indicizzazione dei contenuti on-line, nostro signore dell’informazione di questo secolo, capitola. Secondo il Garante spagnolo, Google è un autonomo titolare del trattamento e come tale deve comportarsi, interrompendo ogni trattamento quando un interessato glielo chiede.
Se Google non fosse stata Google, ovvero un’azienda fondata negli Stati Uniti, con il primo emendamento inscritto nel proprio DNA e, soprattutto, nata per riscrivere per sempre le dinamiche globali dell’informazione, probabilmente questa storia sarebbe finita qui. Qualsiasi impresa di buon senso che indicizzi un numero impronunciabile di contenuti ogni giorno e che si veda ordinare da un’Autorità la deindicizzazione di nove righe di un insignificante annuncio vecchio di oltre dieci anni, non ci avrebbe pensato neppure un istante e avrebbe eseguito. Resistere sarebbe stato evidentemente antieconomico. Qualsiasi impresa, certo. Ma non Google.
A Mountain View, ricevuta la notizia e capito l’impatto di quella decisione sul proprio modello di business, decidono semplicemente e immediatamente che la decisione del Garante per la privacy spagnolo va ribaltata a ogni costo. Google la impugna davanti all’Audiencia Nacional. I giudici di Madrid ci mettono poco a rendersi conto che non si tratta di una vicenda come le altre e che la decisione è destinata ad avere un impatto straordinario in tutta Europa e forse oltre. Si discute di riconoscere a chiunque il diritto di chiedere a Google di condannare un qualsiasi contenuto al sempiterno oblio. Non è cosa per loro, non da soli. Si tratta, peraltro, di interpretare il diritto dell’Unione europea per essere certi che il diritto spagnolo in forza del quale si chiede all’Audiencia Nacional di assumere una decisione non sia in conflitto con quello europeo.
Il 25 maggio 2012 l’Audiencia Nacional rimette una serie di questioni pregiudiziali davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Sono questioni complesse, che vanno dall’applicabilità della disciplina europea in materia di privacy a una società nata e cresciuta nella Silicon Valley sino a stabilire se il gestore di un motore di ricerca può essere considerato un titolare autonomo del trattamento come sostenuto dall’Agenzia spagnola di protezione dei dati personali.
Ma la sostanza è molto più semplice. Tocca ai Giudici del Lussemburgo decidere chi ha torto e chi ha ragione: il galiziano Costeja Gonzalez, che rivendica il suo diritto a che Google condanni all’oblio quel maledetto annuncio pubblicato nel 2008 su La Vanguardia, o Google, che sostiene che non è compito suo – ma semmai dell’editore – decidere quando l’interesse pubblico alla diffusione di un contenuto viene meno. Inizia così in Lussemburgo il processo alla storia davanti ai giudici della Corte di Giustizia che il 13 maggio del 2014 – per la verità dopo aver internamente discusso per quasi un anno sulla questione – decidono che lo spagnolo ha ragione e Google torto:
«Al fine di rispettare i diritti previsti dalla disciplina europea in materia di privacy […] il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita».
I giudici incoronano Google «signore della memoria collettiva» e riconoscono a cinquecento milioni di cittadini europei il diritto di bussare alla sua porta per chiedere di condannare al sempiterno oblio qualsiasi contenuto li riguardi.
Ma questa, ormai, è storia perché nel 2016, un paio d’anni dopo la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, la decisione dei Giudici nel caso Costeja è stata tradotta in norma e, precisamente, nell’articolo 17 del Regolamento generale sulla protezione dei dati personali (GDPR) che recita: “1. L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali, se sussiste uno dei motivi seguenti:
a) i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati;
b) l’interessato revoca il consenso su cui si basa il trattamento conformemente all’articolo 6, paragrafo 1, lettera a), o all’articolo 9, paragrafo 2, lettera a), e se non sussiste altro fondamento giuridico per il trattamento;
c) l’interessato si oppone al trattamento ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente per procedere al trattamento, oppure si oppone al trattamento ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 2;
d) i dati personali sono stati trattati illecitamente;
e) i dati personali devono essere cancellati per adempiere un obbligo legale previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento;
f) i dati personali sono stati raccolti relativamente all’offerta di servizi della società dell’informazione di cui all’articolo 8, paragrafo 1.
[omissis]
a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione;
b) per l’adempimento di un obbligo legale che richieda il trattamento previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento o per l’esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure nell’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento;
c) per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica in conformità dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere h) e i), e dell’articolo 9, paragrafo 3;
d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento; o
e) per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria.”.
Le nuove regole, dunque, nella sostanza, prevedono che chiunque possa richiedere direttamente a Google di deindicizzare qualsiasi contenuto pubblicato online – ivi inclusi, ovviamente, gli articoli di giornale –, che Google debba deindicizzare salvo che non ritenga prevalente, nel caso concreto l’interesse del pubblico a trovare il contenuto oggetto della richiesta e che qualora Google neghi a un interessato il c.d. diritto all’oblio, quest’ultimo possa agire davanti al Garante per la protezione dei dati personali per chiedere che ordini a Google di procedere alla deindicizzazione.
Il Garante, in questo caso, “ripete” la valutazione già fatta da Google – o, almeno, che Google dovrebbe aver fatto e qualora ritenga prevalente l’interesse del singolo all’oblio rispetto a quello del pubblico al reperimento dell’informazione oggetto della richiesta di deindicizzazione, ordina a Google di procedere appunto alla deindicizzazione mentre nel caso opposto respinge l’istanza dell’interessato.
Dal 29 maggio 2014, data di pubblicazione della sentenza a oggi Google ha ricevuto più di 1 milione e 300 mila richieste di deindicizzazione provenienti da tutta Europa in relazione a oltre 5 milioni di contenuti diversi, e in oltre il 49% dei casi ha accolto tali richieste. È accaduto così che circa 2,5 milioni di contenuti continuano a esistere online ma sono sostanzialmente divenuti inaccessibili perché ormai introvabili attraverso Google. Perché ciò che forse è rimasto nell’ombra nella discussione in Lussemburgo è che – che ci piaccia oppure no – oggi ciò che non è indicizzato da Google semplicemente non esiste. Centinaia di migliaia di tessere della storia del mondo – più o meno rilevanti – sono state nascoste agli occhi dei più e così sottratte per sempre alla memoria collettiva. È certamente, in numeri assoluti, la più grande operazione di amnesia collettiva della storia dell’umanità. La biblioteca di Alessandria d’Egitto è di nuovo in fiamme. È giusto così?
L’ultima puntata, almeno sin qui, nell’epico confronto tra diritto all’informazione e diritto alla privacy, la si scrive nel 2022 nel porre mano alla riforma della giustizia.
Con il DECRETO LEGISLATIVO 10 ottobre 2022, n. 150, infatti, si è tra l’altro, intervenuti sulle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, inserendo un nuovo articolo 64-ter rubricato “Diritto all’oblio degli imputati e delle persone sottoposte ad indagini” a norma del quale
“1. La persona nei cui confronti sono stati pronunciati una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero un provvedimento di archiviazione può richiedere che sia preclusa l’indicizzazione o che sia disposta la deindicizzazione, sulla rete internet, dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento, ai sensi e nei limiti dell’articolo 17 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016. Resta fermo quanto previsto dall’articolo 52 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.
2. Nel caso di richiesta volta a precludere l’indicizzazione, la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento appone e sottoscrive la seguente annotazione, recante sempre l’indicazione degli estremi del presente articolo: «Ai sensi e nei limiti dell’articolo 17 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, è preclusa l’indicizzazione del presente provvedimento rispetto a ricerche condotte sulla rete internet a partire dal nominativo dell’istante.».
3. Nel caso di richiesta volta ad ottenere la deindicizzazione, la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento appone e sottoscrive la seguente annotazione, recante sempre l’indicazione degli estremi del presente articolo: «Il presente provvedimento costituisce titolo per ottenere, ai sensi e nei limiti dell’articolo 17 del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, un provvedimento di sottrazione dell’indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell’istante.».
Se le finalità perseguite dall’intervento normativo in oggetto sono chiare e, almeno in parte, condivisibili, la formulazione delle nuove regole lascia almeno perplessi ed appare destinata a dare luogo a più di un dubbio interpretativo.
Tanto per cominciare tra diritto all’oblio anche attuato nella forma della deindicizzazione e diritto alla non indicizzazione c’è una differenza sostanziale non di poco conto: una cosa, infatti, è riconoscere a una persona il diritto a che, trascorso un certo periodo di tempo, un’informazione che la riguarda debba essere sottratta alla conoscenza collettiva e altra cosa è stabilire, come fa la nuova norma, che l’informazione in questione debba essere sottratta alla conoscenza collettiva ab origine, vietando ai motori di ricerca la sua indicizzazione.
Ma al riguardo è, subito, opportuna una precisazione: la norma riconosce all’interessato il diritto a chiedere che il provvedimento giudiziario non sia indicizzato ma non anche che la notizia non sia data o non sia indicizzata con la conseguenza che giornalisti e giornali, ad esempio, potranno continuare a scrivere del provvedimento in questione anche dopo l’accoglimento dell’eventuale richiesta dell’interessato e gli articoli potranno essere regolarmente indicizzati.
Peraltro, la disposizione richiama espressamente “i limiti dell’articolo 17” del GDPR, ivi inclusi, evidentemente, quelli necessari a garantire il bilanciamento tra la libertà di informazione e il diritto alla protezione dei dati personali e dell’identità personale.
In questo senso, quindi, la previsione non sembra dotata di una portata effettivamente innovativa giacché, da tempo, qualsiasi interessato, come abbiamo detto, può chiedere dapprima al giornale, quindi a Google e, in ultima istanza, al Garante la deindicizzazione di un contenuto che lo riguarda e ottenerla qualora, appunto, il proprio diritto alla privacy sia considerato prevalente rispetto a quello del pubblico a conoscere la notizia.
La norma, tuttavia, suggerisce qualche preoccupazione in più sul versante operativo perché non chiarisce a chi tocchi decidere – se un processo valutativo deve considerarsi previsto – sulla richiesta dell’interessato.
La disposizione, infatti, fa riferimento alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento oggetto della richiesta di non indicizzazione o deindicizzazione ma appare singolare ipotizzare che si affidi a una cancelleria un’attività tanto complessa come identificare la posizione di bilanciamento tra due contrapposti diritti fondamentali: il diritto di cronaca e quello alla privacy.
Né, d’altra parte, stante il richiamato riferimento ai limiti di cui alla disciplina europea in materia di protezione dei dati personali può ipotizzarsi un automatismo tra la richiesta dell’interessato e l’annotazione, in calce al provvedimento, dell’indicazione relativa all’esigenza di non indicizzare il provvedimento medesimo o alla circostanza che l’annotazione costituisca titolo per ottenere la deindicizzazione del provvedimento.
Si tratta di questioni che, a questo punto, toccherà alla giurisprudenza chiarire.
Sul versante operativo, invece, ciò che è certo è che l’eventuale annotazione del divieto di indicizzazione del provvedimento deve considerarsi rivolta ai gestori dei siti web e dei servizi che eventualmente la pubblicassero e non ai motori di ricerca che, stante il loro attuale funzionamento, non avrebbero, tecnologicamente, nessuna possibilità di sottrarre, in maniera selettiva, all’indicizzazione un contenuto non “segnalato” come da non indicizzare da chi lo pubblica.
La sostanza potrebbe essere che la norma in questione finisca con il rappresentare una delle tante norme presenti nel nostro ordinamento destinata a cambiare tutto per non cambiare nulla.
GUIDO SCORZA
Componente del Collegio del Garante per la protezione dei dati personali, avvocato, giornalista, professore a contratto di diritto delle nuove tecnologie e privacy. Già socio fondatore dello Studio Legale E-Lex è stato responsabile degli affari legali nazionali ed europei del team per la trasformazione digitale, consigliere giuridico del Ministro per l’innovazione e rappresentante vicario del Governo italiano presso il GAC – Government advisory Board dell’ICANN, nonché componente del sottogruppo policy del Comitato ad hoc sulla regolamentazione dell’Intelligenza artificiale del Consiglio d’Europa. È autore di diversi libri tra i quali: L’intelligenza artificiale, l’impatto sulle nostre vite, diritti e libertà con Alessandro Longo (Mondadori), La privacy spiegata ai più giovani (e ai loro genitori) con Michela Massimi (Mondadori), Processi al futuro (Egea), Internet, i nostri diritti con Anna Masera (Laterza), La Privacy degli Ultimi con Eduardo Meligrana (Rubbettino), Neuroverso (Mondadori)
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