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Ordine dei Giornalisti - Consiglio Nazionale
03/04/2023
REPORT 2023
Il pluralismo dell’informazione alla prova della crisi di fiducia nei media
Davide Bennato
Professore di sociologia dei media digitali
La letteratura sociologica che ha affrontato la questione del giornalismo considera il rapporto tra pluralismo dell’informazione e democrazia un fatto sociale ormai assodato. A prova di questo rapporto non solo l’idea è entrata a far parte della manualistica condivisa su questo argomento, ma anche nella deontologia professionale delle democrazie liberali il pluralismo viene visto come parte integrante del sistema democratico.
Ovviamente a queste posizioni condivise bisogna associare anche il fatto che quello fra pluralismo e democrazia, coinvolgendo diversi stakeholder, è un legame complesso e articolato che non sempre facile. Due sono i fattori che potremmo considerare convitati di pietra: la salute della democrazia e l’opinione pubblica. La prima definisce in maniera forte le condizioni di lavoro della stampa considerata come istituzione sociale e mediale: è dal loro rapporto ma soprattutto dal loro conflitto è possibile giudicare lo stato delle democrazie liberali. La seconda, se si vuole, è ancora più problematica per due ordini di motivi. In primo luogo, perché l’opinione pubblica è un costrutto artificiale che serve per indicare la readership, i veri destinatari del lavoro giornalistico e le conseguenze che hanno sulla percezione sociale. In secondo luogo, perché in questo periodo la frammentazione sociale ha colpito anche questo concetto, tanto che è legittimo parlare di opinioni pubbliche, che si compongono all’interno di una quadro sociale che vede come protagonisti i media, le piattaforme digitali, la percezione del ruolo del giornalista, la legittimazione delle istituzioni democratiche, solo per citare le principali.
È questo l’orizzonte su cui va collocato il nostro report: quale sia il ruolo dell’informazione in una società sempre più frammentata in cui le istituzioni sociali (nella fattispecie stampa e democrazia) sono messe in crisi da fattori strutturali – orizzonte economico, conflitto politico, riorganizzazione sociale – e da fattori culturali – scetticismo diffuso, percezione della crisi, paura del futuro – che hanno come conseguenza quella di porre una domanda importante: qual è lo stato di salute del rapporto fra pluralismo e democrazia?
Il rapporto fra pluralismo dell’informazione e democrazia è un rapporto istituzionalizzato fin dai tempi della nascita del concetto di opinione pubblica all’interno delle democrazie liberali, ma negli ultimi anni la disarticolazione fra media e la percezione critica delle organizzazioni democratiche ha creato un ecosistema sociale che potrebbe avere conseguenze tossiche.
La percezione generalizzata è un calo di fiducia verso le istituzioni sociali che conduce ad uno sguardo verso gli stakeholder presenti sullo spazio pubblico. L’unica categoria che fa eccezione sono le imprese che vengono viste in maniera neutrale rispetto al tema della fiducia, e in quanto tale ci si aspetta che esse intervengano quando la politica – e quindi il sistema democratico – si dimostra incapace a fornire risposte valide alla situazione di crisi. Crisi questa dovuta essenzialmente alla lunga durata delle condizioni economiche che ormai hanno consumato l’atteggiamento ottimistico. Tutto ciò conduce alla paura del futuro al quale si sopperisce tramite l’ottimismo verso l’innovazione tecnologica. In questo quadro i media in generale – e l’informazione in particolare – sono considerate sia causa che effetto. Causa perché percepiti come fonte delle fake news, di polarizzazioni politiche e sociali, di propaganda politica ed elettorale e di una scarsa deontologia nel trattamento delle informazioni. Effetto perché si osserva un divario di fiducia verso il panorama mediale: ovvero i media sono fonti di informazioni, comunque da valutare, mentre le piattaforme digitali sono principalmente strumenti di relazione sociale e di intrattenimento in cui la presenza delle news non solo è incidentale, ma vengono percepite come mediamente meno affidabili, nonostante lo sforzo fatto dalle testate giornalistiche nell’usare il digitale come strumento per ampliare la propria base di lettori. Questo quadro particolare colpisce con forza lo stato del pluralismo informativo. In Italia non c’è un reale problema di pluralismo, anche se le componenti principali di questo concetto – protezione dei diritti fondamentali, pluralismo di mercato, indipendenza politica, inclusione sociale – si collocano fra medio e basso rischio, ad eccezione dell’inclusione sociale negli spazi digitali che si colloca ad un rischio alto. In questo quadro i giornalisti si sentono chiamati a presidiare lo spazio democratico nella forma del pluralismo dell’informazione e dell’attenzione verso i cittadini attraverso un articolato mix che vede da un lato i fondamentali del lavoro editoriale, dall’altro gli elementi costitutivi della deontologia professionale.
Il problema che va delineandosi non è tanto legato al pluralismo dell’informazione, ma a cosa serva un’informazione ricca e variegata quando viene percepita come essenzialmente priva di fiducia e non affidabile. Il problema non è attribuibile alla disponibilità di news negli spazi digitali: a ben vedere questa disponibilità apre l’accesso a nuovi lettori, ma sono le strategie con cui il giornalismo si presenta negli spazi digitali a rappresentare la vera sfida. Al momento in Italia – ma è possibile estendere questa riflessione anche alla situazione internazionale con gli opportuni distinguo – il giornalismo si muove lungo un continuum che va dalla stanca riproposizione di format già assodati (e in crisi) nel giornalismo cartaceo e televisivo, all’inseguimento dei lettori attraverso strategie che nella migliore delle ipotesi rasentano il clickbaiting. È facile intravedere in questo scenario una grossa difficoltà nel rispondere alla domanda: per quale motivo si dovrebbero consumare notizie prodotte dalle testate giornalistiche?
Che il pluralismo dell’informazione sia legato alla buona salute della democrazia è un tema che non ha bisogno di essere ulteriormente argomentato. La questione è perché il giornalismo non abbia preso coscienza del fatto che l’opinione pubblica in epoca di ecosistema mediale ibrido analogico-digitale è profondamente cambiata. Il concetto di opinione pubblica è stato sempre uno strumento utile per difendere il ruolo della stampa, ma la verità è che l’opinione pubblica è un modo ideologico di rivolgersi all’universo dei lettori, mentre sarebbe necessario cominciare a ragionare in termini di opinioni pubbliche, e non solo per un restyling che soddisfi una presunta inclusività delle diverse tipologie di pubblico, ma per andare incontro alla consapevolezza della frammentazione dei pubblici. Mutatis mutandis è quello che è successo alla televisione, in cui il pubblico è stato sostituito dall’audience, dimostrazione della prevalenza del modello commerciale a discapito del modello pubblico, fiore all’occhiello della via europea alla televisione.
Quello che sembra emergere dai documenti usati per stilare questo rapporto è che sia necessario un nuovo patto comunicativo tra il mondo della stampa e quello dei lettori. Il primo è chiamato a innovare i linguaggi, i format e le strategie di accesso alle notizie all’interno di un percorso di innovazione deontologica professionalizzante – che non si traduca in una collezione di crediti formativi offerti dal sistema pubblico e privato. Il mondo dei lettori a sua volta deve cominciare a comprendere la necessità di investire le proprie risorse – di tempo, attenzione e denaro – nel fruire di un giornalismo che consenta a chiunque di posizionarsi nel mercato a seconda delle disponibilità e nell’attribuzione di importanza al sistema mediale.
In questo senso il modo per intervenire in questa situazione è migliorare l’ecologia del panorama mediale – digitale e tradizionale –dell’informazione, nella direzione di un nuovo patto comunicativo tra stampa e lettori, che abbandoni alcuni luoghi comuni ormai consunti del rapporto nato nel XIX secolo e accolga la sfida del cittadino del XXI secolo: nuovi formati, nuovi linguaggi, nuovi processi culturali.
Il modo migliore di comprendere il rapporto fra pluralismo e democrazia è quello di collocare la relazione all’interno del quadro sociale di questi anni. C’è da dire che non è un quadro roseo, poiché diversi studi sottolineano come gli ultimi anni siano caratterizzati da un generalizzato calo di fiducia in tutte le istituzioni sociali, media compresi, nei quali il ruolo della pandemia non è stato quello di elemento causante, bensì quello di componente accelerante.
Questa situazione di calo di fiducia è molto forte in Italia: infatti nessuna istituzione in Italia gode della fiducia dei cittadini, ad esclusione del mondo delle imprese (Passoni 2022).
In realtà l’atteggiamento complessivo non è di sfiducia dichiarata, bensì di sostanziale neutralità, per quanto rispetto 2021, i media e il governo hanno avuto un calo di un punto percentuale, mentre le organizzazioni non governative (ONG) pur ottenendo un punteggio di neutralità hanno aumentato la propria percentuale. In particolare, il governo non viene percepito come in grado di risolvere i problemi ma neanche capace di svolgere una certa leadership, il che mostra come dopo il breve periodo di fiducia verso le istituzioni nei confronti della pandemia, la percezione del rapporto cittadini-politica si sia inasprito.
La conseguenza di ciò è un calo di fiducia nella democrazia: nella classifica dell’Edelman Trust Barometer che monitora 27 paesi, l’Italia si colloca al 14° posto, subito prima del Brasile, situazione che può essere attribuita a diverse cause, ma quella più forte è senza dubbio la dimensione culturale. Si rileva uno scetticismo diffuso nei confronti della propria società. I dati in questo senso delineano un quadro preciso: il 63% della popolazione italiana dichiara di avere un atteggiamento generalizzato di sfiducia finché non ha le prove del contrario, inoltre ben il 74% afferma che in Italia non ci siano margini per avere dibattiti civili e costruttivi.
È difficile pensare che questo calo di fiducia sia attribuibile ad un non meglio precisato zeitgeist culturale: sembra invece basato sulla vita quotidiana delle persone che esperiscono la propria condizione sociale in termini critici (Passoni 2022).
I dati sembrano sostenere questa ipotesi. C’è una certa corrispondenza tra sfiducia generalizzata e reddito: nel 2022, il 61% dei redditi più alti esprime un atteggiamento di sostanziale fiducia nelle istituzioni, mentre il 48% dei redditi più bassi di contro ha un atteggiamento di sfiducia. Questo gap basato sul reddito ha avuto modo di ridursi, infatti si è passati da uno scarto di 38 punti percentuali del 2012 ad una differenza di 13 punti percentuali dieci anni dopo, però questa lunga permanenza di condizione economica e sfiducia verso le istituzioni non poteva non lasciare tracce nel vissuto sociale generale. La riduzione del gap è a vantaggio dei redditi più bassi: sono loro ad aver diminuito lo scarto percentuale con i redditi più alti nel corso del tempo. Tutto ciò viene radicalizzato dalla paura del futuro. I dati in questo senso sono impressionanti: il 93% dichiara che la paura maggiore è la perdita del lavoro, seguito dal cambiamento climatico (83%) e la perdita delle libertà come cittadino (70%). Letti in maniera sincronica questi dati mostrano che la crisi economica si è trasformata in una percezione di crisi rispetto alla propria sicurezza e verso il futuro, che ha minato la fiducia verso tutte le istituzioni sociali, anche se con gradi diversi. C’è un altro dato che confermerebbe la relazione della continuità fra persistenza della crisi economica e percezione di crisi generalizzata: l’Italia manca di ottimismo economico come d’altronde tutti i paesi sviluppati. La percentuale di chi vede miglioramenti nella propria condizione economica nei prossimi cinque anni in Italia è del 27%, una percentuale rimasta pressoché invariata rispetto al 2021 e che la colloca al quart’ultimo posto fra i 27 paesi dell’Edelman Trust Barometer. L’effetto sociale di questa componente fa sì che il capitalismo venga percepito un sistema economico piuttosto problematico. Il giudizio è piuttosto severo: oltre la metà della popolazione italiana ritiene l’attuale modello capitalistico sia più fonte di problemi che di soluzioni (58%, 6 punti in più della media dei 27 paesi), affermazione che porta un terzo della popolazione ad esprimere apprezzamento verso sistemi economici centralizzati rispetto al libero mercato (33%, in linea con la media dei 27 paesi).
Nonostante l’economia sia la fonte delle paure e delle preoccupazioni delle persone paradossalmente è proprio dall’economia, in particolare da parte delle imprese, che ci si aspetta vengano le soluzioni.
Le imprese sono le uniche a godere di una certa fiducia da parte degli italiani, anche se chi la vede in questo modo non va oltre il 61%[1]. Questa fiducia viene confermata dal fatto che esse vengono considerate come le istituzioni sociali che dovrebbero colmare i vuoti che vengono lasciati dal governo. Secondo questa visione non solo gli amministratori delegati dovrebbero intervenire quando il governo non è in grado di risolvere i problemi (65%), ma dovrebbero prendere l’iniziativa sul cambiamento piuttosto che attendere l’azione del governo (57%) in quanto sono responsabili rispetto alla popolazione e non solo al consiglio di amministrazione o gli azionisti (55%). La naturale conseguenza di questo orientamento è che gli amministratori delegati dovrebbero dare una linea di condotta alla politica, non al sistema politico, in tutte le questioni principali come l’ambiente (65%, di cui 48% si aspetterebbe un coinvolgimento forte), l’economia (65%, di cui un coinvolgimento forte per il 43%), l’automazione (65%, di cui un coinvolgimento forte per il 41%). Le imprese non godono tutte della stessa fiducia: ci sono sfumature nei settori industriali e nella tipologia. Per quanto riguarda i settori, godono di una forte fiducia le imprese che operano nel settore tecnologico (73%), nella salute oppure nella manifattura (68%), nell’industria alimentare o nel retail (67%), nel settore educativo (63%) e in quello automobilistico (62%). Per quanto riguarda la tipologia, sono le imprese a conduzione familiare quelle a godere della maggiore fiducia (68%) per quanto negli ultimi otto anni hanno avuto un calo di 10 punti percentuali, mentre le altre forme – private, pubbliche, quotate in borsa – non raggiungono la percentuale minima per essere definite come oggetto di un atteggiamento neutrale.
L’interpretazione più immediata di questi dati è che la fiducia nell’innovazione tecnologica da parte dei privati ha sostituito l’ottimismo del futuro nei rapporti sociali a cui si aggiunge il modello culturale del familismo amorale che caratterizza la cultura – in generale – e la cultura economica – in particolare – italiana ormai da diversi decenni.
Le fonti accreditate della narrazione che vede le imprese come istituzioni credibili (Figura 22) sono gli esperti accademici (55%), mentre i giornalisti nonostante il loro ruolo naturale di informatori sono considerati credibili solo da una persona su cinque (21%).
Questo introduce il tema della credibilità del sistema informativo rispetto ad un contesto di crisi.
I dati relativi alla crisi di fiducia generalizzata sono un ottimo strumento di accesso per comprendere la crisi di fiducia a cui è sottoposto il sistema della comunicazione.
Da una rapida analisi dei soggetti pubblici e del loro grado di credibilità, emerge con forza che il mondo dei media variamente declinato ha un importante problema di fiducia.
Nella classifica delle categorie ritenute meno credibili (Figura 23) al primo posto ci sono i giornalisti (32% di chi li considera degni di fiducia), seguiti da leader di governo (34%) e gli amministratori delegati come categoria generale (38%), molto meno credibili del proprio amministratore delegato (60%). Il motivo principale della mancanza di fiducia è che queste categorie sono viste come intenzionalmente orientate a mentire o ad esagerare: i giornalisti e i rappresentanti del governo dal 75% dei rispondenti, i leader d’affari dal 72%. La conseguenza è che il 54% ha bisogno di vedere le informazioni ripetute per credere nei media – quando la fonte è riconosciuta – percentuale che si abbassa al 43% nel caso di una fonte anonima. Situazione comunque migliore rispetto alle informazioni che circolano nei canali social che solo il 40% ritiene essere credibili al netto di una ridondanza informativa. I motivi alla base di tale scetticismo verso i media e governo è che entrambi sono visti come forze divisive, tendenti a separare i membri della società piuttosto che unire. È la percezione del 53% nel caso del governo e del 49% nel caso dei media. Le notizie politiche sono percepite con il sospetto della propaganda e della polarizzazione, soprattutto nelle piattaforme digitali considerate come lo spazio pubblico che viene conteso dalla comunicazione politica.
Strettamente legata a questa situazione c’è diffusa in Italia una forte preoccupazione verso le fake news, che ha però creato degli anticorpi da parte dei cittadini che si esprimono nella forma di un tentativo di approccio critico alle informazioni circolanti nella mediasfera.
La percezione delle fake news come pericolo maggiore risiede nei timori sul loro uso come arma comunicativa, non importa se politica, sociale, economica: il 79% dei cittadini italiani ne teme le conseguenze, un valore che supera di 4 punti percentuali i dati del 2021 e di 3 punti percentuali la media dei 27 paesi dell’Edelman Trust Barometer. Questa situazione è piuttosto diffusa a livello globale: basti pensare che il principale problema associato alle piattaforme digitali sono la misinformazione – ovvero la diffusione non intenzionale di notizie false o fuorvianti – e la pressione mediale aggressiva. La reazione a tutto ciò è che gli italiani mostrano un – debole – tentativo di migliorare la propria igiene informativa, ovvero una serie di buone pratiche che consistono nel coinvolgimento con le notizie, evitare le camere di risonanza (echo chambers), controllare le informazioni, non diffondere informazioni non verificate. Queste strategie sono attuate dal 35% dei rispondenti, mentre il 37% rivela un uso parziale di tali strategie. Il vero punto chiave è che l’aumento a livello globale dei timore verso la misinformazione va di pari passo con l’uso molto diffuso dei social media.
Per comprendere la complessità della situazione dei media rispetto al consumo di notizie in relazione alle piattaforme di distribuzione dei contenuti, può essere interessante usare come strumento di analisi il concetto di divario di fiducia (trust gap) messo a punto dal progetto Trust in News del Reuters Institute e supportato dal Facebook Journalism Project che a partire dall’analisi di quattro mercati globali – Brasile, India, Regno Unito, USA – sviluppa una serie di trend globali sul rapporto tra fiducia, giornalismo e piattaforme digitali (Mont’Alverne et al. 2022).
Il divario di fiducia consiste nella “disparità tra i livelli di fiducia nelle notizie trovate sui social media, nelle app di messaggistica e nei motori di ricerca, rispetto alla fiducia nei confronti delle informazioni nei media più in generale” (p.56).
Questa situazione è solo all’apparenza controintuitiva ma può essere spiegata facendo riferimento alle forme di consumo delle notizie nei diversi mercati analizzati, contestualizzando il ruolo sociale e culturale delle piattaforme digitali.
La crescita dell’uso delle piattaforme nell’accesso alle news – invece dei canali specificamente controllati dalle testate giornalistiche – non deve essere considerato come sintomo del declino della fiducia verso il giornalismo, ma come cambiamento delle abitudini di consumo dei lettori, se è vero che lo smartphone è lo strumento globale di accesso alle news, percentuale che in Italia raggiunge il 38%, seguito dal 32% della televisione, 11% della radio, 3% della stampa.
I profondi cambiamenti economici e culturali del settore delle notizie, associato al sempre maggiore utilizzo delle piattaforme social, influiscono sulla percezione del pubblico rispetto all’affidabilità delle informazioni che incontrano online/offline. Le persone usano le piattaforme come strumento per la costruzione di un network relazionale oppure per intrattenimento: la fruizione delle notizie in questi spazi non deve essere considerata come la motivazione principale. Detto altrimenti: le news hanno bisogno delle piattaforme più di quanto le piattaforme abbiano bisogno delle news.
Non solo, si assiste al fenomeno dell’evitamento selettivo (selective avoidance come sintomo del declino della fiducia verso): le persone evitano di proposito il consumo di contenuti informativi che in Italia riguarda il 34% delle persone (la media globale è 38%). Fra questa tipologia di lettori, chi afferma di farlo perché ha difficoltà a comprendere le news è il 6% (sia under- che over- 35 anni). Questi sono i motivi che fanno sì che il livello di fiducia delle news nei social media sia molto più basso che nelle news in generale. Inoltre, il profilo di chi non si fida delle news sulle piattaforme è lo stesso di chi non si fida delle news in generale: più vecchi, con un titolo di studio più basso e meno interessati alla politica, un argomento che suscita scetticismo quando si tratta di valutare se le notizie siano affidabili o meno.
Misinformazione, comunicazione molesta e uso irresponsabile dei dati sono problemi percepiti come propri delle piattaforme digitali e questo non fa altro che abbassare la percezione della qualità delle informazioni circolanti in rete. Il problema del divario di fiducia aumenta se si pensa che i dati mostrano come una porzione importante del pubblico ha una percezione negativa sul modo con cui i giornalisti svolgono il proprio lavoro, percezione questa che viene condivisa proprio all’interno delle piattaforme digitali. Il paradosso che si osserva è che il pubblico ha una bassa opinione verso le informazioni circolanti nelle piattaforme digitali, ma ha un atteggiamento prevalentemente positivo verso servizi come Google o Youtube (persino Whatsapp se si osservano i dati di India e Brasile). Questo accade sostanzialmente perché le piattaforme digitali sono considerati strumenti di connessione sociale e di intrattenimento, non di consumo di notizie. C’è da osservare che – così come nel resto del mondo – anche in Italia cresce la quota di chi consuma news in formato video (18%), specialmente fra gli under 35) anche se resta prevalente il consumo di testi (60%).
Comunque il panorama editoriale del mercato delle notizie sta confermando nel 2023 alcuni trend che sono cominciati ad emergere già dallo scorso anno (Newman 2022, 2023). Le aspettative commerciali sono profondamente ridimensionate per una serie di motivi importanti. Il primo motivo è la crescente frammentazione dei business model che vedono gli editori investire in strategie di abbonamento e fidelizzazione, spesso puntando su format maggiormente attrattivi come podcast, video brevi, newsletter più o meno specializzate. In questo senso va interpretata la tendenza riscontrata che il giornale stampato e distribuito in forma cartacea sarà un prodotto non sempre disponibile 7 giorni su 7.
Sempre nell’ottica della diversificazione commerciale è da intendersi la crescita delle AI nelle newsroom, più pensate per una maggiore profilazione del lettore e della sua esperienza di fruizione delle notizie che non all’affiancamento del lavoro di redazione, almeno per ora. Alla base di questi stravolgimenti resta la forte preoccupazione per la news avoidance, più o meno selettiva, che sta aumentando la preoccupazione verso i cambiamenti profondi nel panorama mediatico come la crisi di Twitter – di cui non è chiaro il destino – e la fine della televisione lineare anche nel mondo delle notizie.
In sintesi: il sistema dell’informazione rispecchia la crisi di fiducia che colpisce diverse istituzioni sociali con l’aggravante di rinforzare questa percezione a causa del basso livello di credibilità che colpisce le piattaforme quando essere veicolano contenuti informativi (trust gap).
In questo senso possiamo dire che i media sono contemporaneamente causa ed effetto della crisi di fiducia generalizzata: questo apre scenari complessi per quanto riguarda il rapporto tra pluralismo e democrazia.
Per comprendere come il frastagliato panorama sociale e mediale interferisca con il pluralismo informativo, è necessario focalizzare l’attenzione su questo aspetto. Il concetto di pluralismo è un concetto complesso che riguarda diversi fattori: diritti fondamentali, configurazione del mercato, rapporti con la politica, inclusione sociale.
A loro volta questi fattori fanno riferimento ad un sistema articolato di indicatori. Per la complessità dell’analisi in questione faremo ricorso al rapporto sul pluralismo dell’informazione in Italia del Centre for Media Pluralism and Media Freedom dell’European University Institute (Figura 29 ) (Carlini, Trevisan, Brogi 2022).
Per quanto riguarda la protezione dei diritti fondamentali, in Italia il rischio è valutato come basso. I fattori di sicurezza sono ascrivibili agli interventi correttivi sulla legge relativa alla diffamazione e il miglioramento dell’accesso ai media tradizionali e internet. Ciononostante, i fattori di rischio sono presenti e vanno dalla reale efficacia del quadro legislativo, alla crescita degli attacchi intimidatori contro i giornalisti, la poca protezione dei giornalisti dall’uso della querela per impedire lo svolgimento professionale (querele temerarie) a cui si associa un deterioramento delle condizioni lavorative. Il pluralismo di mercato si trova in una situazione di rischio medio, perché se da un lato c’è una certa trasparenza sulla proprietà dei media grazie all’istituto del ROC (Registro Operatori Comunicazione), dall’altro però si osserva un’alta concentrazione del settore editoriale, strategia usata per difendersi dall’instabilità dei mercati, e una alta concentrazione del mercato della pubblicità online che nel 2019 ha sorpassato la pubblicità televisiva.
Il fattore dell’indipendenza politica è valutato a rischio medio: in questo caso i fattori di rischio possono essere considerati come “storici” come la poca indipendenza del sistema di nomine del servizio pubblico, la mancanza di una disciplina efficace per i conflitti di interesse, la poca efficacia delle regole della comunicazione elettorale. Anche la componente relativa all’inclusione sociale si trova a rischio medio.
Se i fattori di sicurezza sono rappresentati dalla disponibilità all’accesso ai media da parte delle comunità locali e territoriali, delle donne e delle minoranze linguistiche riconosciute, i fattori di rischio consistono nel mancato accesso alle minoranze non istituzionalmente riconosciute (migranti, rifugiati) a cui si associa una bassa alfabetizzazione mediatica e una poca protezione da contenuti dannosi. Se si scorpora da tale analisi la dimensione del pluralismo nello spazio digitale, a parità di fattori si osserva una situazione leggermente diversa.
Per quanto riguarda la protezione dei diritti fondamentali il quadro è sostanzialmente invariato: anche qui il rischio è basso. I fattori di sicurezza sono da un lato la libertà di espressione garantita costituzionalmente anche online, dall’altro l’assenza di filtraggio o censura di alcun tipo di contenuto online. Resta come fattore di rischio la crescita delle minacce online contro i giornalisti, in particolare le giornaliste.
Così come per la valutazione generale, anche per il pluralismo di mercato online il rischio è medio: mercato meno concentrato, ricezione della direttiva UE sul diritto di autore, diversi accordi tra piattaforme digitali e testate editoriali, anche se non bisogna dimenticare che l’80% del mercato pubblicitario online in Italia è in mano e Google e Facebook. In questo senso un caso interessante sono gli editori che potremmo definire nativi digitali (Fanpage, HuffPost, Il Post, Open) che hanno contribuito a innovare il mercato puntando su nicchie lasciate scoperte dai player tradizionali, sui giovani e usando un abile equilibrio fra giornalismo tradizionale e format innovativi con la nascita di gruppi che fanno dei formati innovativi (come il podcast nel caso Chora Media) il proprio punto di forza.
Proprio i podcast sta diventando un formato vincente: in Italia è il 29% che afferma di usare tale formato. Le cose cambiano per quanto riguarda gli altri fattori. L’indipendenza politica è a rischio basso, nonostante la presenza di diversi fattori di rischio che vanno dalla difficoltosa applicazione della par condicio online ai problemi di trasparenza degli investimenti in comunicazione politica ed elettorale online, alla crescita di strumenti big data per la comunicazione politica.
Un elemento di allarme è la valutazione del rischio per il fattore dell’inclusione sociale online considerata a rischio alto. La situazione in questo caso è tenere sotto osservazione a causa di un mix deleterio di scarsa alfabetizzazione informatica, alta vulnerabilità verso disinformazione ed hate speech, presenza di ondate di complottismo e disinformazione (politiche 2018, Vaccini e COVID-19, guerra in Ucraina) e assenza di un quadro normativo che focalizzi l’attenzione sulle piattaforme digitali.
Se il pluralismo dell’informazione in Italia si trova in una situazione delicata rispetto alla quale mantenere alta l’attenzione, i giornalisti intesi come categoria professionale sono chiamati a ricoprire un duplice ruolo: da un lato svolgere la propria attività attenendosi alla deontologia professionale, dall’altro provare a adattarsi in un mercato editoriale turbolento che rende instabile il delicato rapporto fra pluralismo e democrazia.
Intervistati sulle caratteristiche professionali del proprio ruolo, i giornalisti italiani ritengono molto importante quello di riportare le storie così come sono (90,4%), essere degli osservatori distaccati (86,6%), fornire analisi sull’attualità (77,4%), lasciare che le persone esprimano il proprio punto di vista (64,5%). Elementi come essere avversari del governo, fornire un’immagine positiva dei leader politici, sostenere lo sviluppo nazionale o le politiche del governo non sono considerati elementi che fanno parte del ruolo. Dal punto di vista deontologico, i giornalisti mostrano un impegno importante ma contradditorio. L’adesione ai codici etici viene considerata imprescindibile (93,7%) anche se la percezione di ciò che è etico nel giornalismo dipende anche dalla situazione (39,1%) tanto che è accettabile discostarsi dagli standard deontologici se la situazione straordinaria lo richiede (27,2%). La libertà dell’informazione, direttamente connessa al pluralismo dei media, passa anche da elementi come l’autonomia professionale e i criteri che influenzano il newsmaking: da questo punto di vista i giornalisti italiani non godono di molta autonomia e i criteri sono legati al flusso di lavoro. La libertà nella scelta delle storie viene dichiarata da poco meno della metà degli intervistati (49,5%), la percentuale aumenta solo quando viene chiesta la libertà di decidere quali aspetti di una storia enfatizzare (59,6%), mentre solo quattro su dieci (40,4%) dichiarano di essere coinvolti spesso in attività di coordinamento editoriale. Il criterio guida principale nella produzione di notizie è la deontologia (77,6%) seguito dai limiti di tempo (55%), accesso alle informazioni (52,6%) e il rapporto con le fonti (47.9%). Queste attività vengono esercitate in un contesto professionale in transizione in cui aumenta l’uso delle competenze digitali – in particolare motori di ricerca (95,5%) e altre competenze tecniche (73,4%) – nonché l’influenza dell’ecosistema digitale e dell’orientamento al mercato (influenza dei social 96,6%, dei contenuti generati dagli utenti 89,8%, delle ricerche di mercato 71,7%).
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[1] Secondo L’Edelman Trust Barometer, si considera un atteggiamento di fiducia a partire dal 60% degli intervistati.
DAVIDE BENNATO
Professore associato di Sociologia dei media digitali presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche (DISUM) dell’Università di Catania. È presidente del corso di Laurea in Scienze e Lingue per la Comunicazione (DISUM), membro del Centro Informatica Umanistica (CINUM) dell’Università di Catania, membro del Dottorato in Sistemi Complessi del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Catania.
Si occupa di comportamenti collettivi nei social media, etica dei big data, sociologia digitale.
Su questi temi cura il blog Tecnoetica.it e scrive per il magazine Agenda Digitale
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