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Il pluralismo informativo tra teorie dei media e (limiti della) tutela normativa. Proposte per una evidence-based regulation - Ordine Dei GiornalistiOrdine Dei Giornalisti

Ordine dei Giornalisti - Consiglio Nazionale

Il pluralismo informativo tra teorie dei media e (limiti della) tutela normativa. Proposte per una evidence-based regulation

02/04/2023

REPORT 2023

Il pluralismo informativo tra teorie dei media e (limiti della) tutela normativa. Proposte per una evidence-based regulation

Elisa Giomi

Professoressa di sociologia di comunicazione e dei media

In questo contributo[1] si analizzano la nozione di “pluralismo informativo” e le forme della sua tutela nel nostro ordinamento, per poi avanzare una proposta che possa colmare quelle che – lo mostreremo – appaiono criticità irrisolte. Questa operazione non può che partire da una chiara enunciazione di come debba intendersi il pluralismo. La nozione varia, infatti, in base al ruolo che si assegna ai media nel dibattito sociale e nella costruzione dell’opinione pubblica. A sua volta, questo ruolo varia in base ai modelli di democrazia e alle teorie mediali che adottiamo. È dunque da questa ricognizione che prende avvio il percorso.

Per una definizione di pluralismo: modelli di democrazia e teorie dei media

Crediamo che una proposta molto utile per definire il pluralismo provenga da Raeijmaekers e Maeseele, in un articolo del 2015 dal titolo “Media, pluralism and democracy: what’s in a name?”[2]. Gli autori analizzano tre differenti “scuole” di teoria democratica – liberale, deliberativa, agonistica – ed i corrispettivi ruoli assegnati ai media, traendone due criteri identificativi del pluralismo mediale.

Il primo criterio è la distinzione “consenso/conflitto”. I primi due modelli di democrazia presi in esame, liberale e deliberativo, puntano a superare eterogeneità e controversie sociali per raggiungere il consenso collettivo. Il modello agonistico non ritiene invece che eterogeneità e controversie debbano essere superate, giacché le considera costitutive della stessa politica democratica.

Il ruolo assegnato ai media nei tre diversi modelli è conseguente. Nei modelli liberale e deliberativo, il ruolo e le “prestazioni” dei media sono valutate in base alla loro capacità di rappresentare e (ri)produrre il consenso sociale, cioè portarlo in scena e contribuire al suo mantenimento e alla sua costruzione. Gli approcci liberale e deliberativo rimandano alle cosiddette teorie “affermative” dei media, caratterizzate da una visione media-centrica: la relazione tra media da un lato e società/democrazia dall’altro è analizzata a partire dal ruolo dei media, in termini di contributo alla riproduzione dell’ordine socio-politico dominante. Tale ordine è dato per scontato e vissuto come a-problematico. Alle teorie affermative dei media si oppone la tradizione dei “critical media studies”, caratterizzata da una visione socio-centrica anziché media-centrica. Contrariamente alla precedente, si fonda su una forte critica dell’esistente. L’ordine sociopolitico è concepito come segnato da conflitti e asimmetrie di potere, disuguaglianze ed esclusioni.

C’è una corrispondenza abbastanza lineare tra i modelli democratici liberale e deliberativo da un lato e teorie “affermative” dei media dall’altro, corrispondenza fondata sulla comune assenza di critica dell’esistente e sulla tensione alla riconciliazione del dissenso. A detta degli autori, non c’è invece la stessa corrispondenza lineare tra il modello agonistico e le teorie critiche dei media perché si tratta di un modello ancora poco praticato nell’ambito dei media studies. Trova però analogie con l’approccio dell’economia politica e dei cultural studies.

Il secondo criterio per l’identificazione del pluralismo è l’asse “diversità/pluralismo”, due termini spesso utilizzati come sinonimi nella riflessione sui media, notano giustamente Raeijmaekers e Maeseele. Anche se i modelli liberale e deliberativo condividono l’idea che i media debbano contribuire a ricomporre le dispute sociali, differiscono nel modo in cui immaginano il processo: il liberale guarda ai media come a luogo di “trattativa”, meri specchi di differenze esistenti nella società, mentre il deliberativo guarda ai media riconoscendo loro un ruolo attivo nel dibattito pubblico e nel processo di deliberazione collettiva. Il modello deliberativo condivide con il modello agonistico la convinzione che i contenuti mediali non debbano solo riprodurre, portare in scena eterogeneità e dispute sociali, ma anche riflettere su di esse.

La distinzione tra diversità e pluralismo consiste proprio in questo, e può essere colta a partire dalla diversa concettualizzazione di “pluralità” che è in gioco. La diversità intende la pluralità come “varietà pre-esistente alla rappresentazione mediale”, una varietà empiricamente osservabile – varietà della società, diremmo; il pluralismo si riferisce invece ad una pluralità intesa come varietà ideologica, “discorsiva”, cioè di posizionamenti e visioni (varietà circa la società e i suoi fenomeni). Infatti, la distinzione tra diversità e pluralismo, nella teoria mediale, può essere anche interpretata come distinzione tra “selezione mediale” e “presentazione mediale”, cioè distinzione tra cosa viene scelto per divenire oggetto di copertura mediale e come si sceglie di coprirlo. Infine, occorre notare che mentre “diversità” è un concetto descrittivo, a-valutativo, “pluralismo” può essere inteso come un valore sociale.

Incrociando i due criteri, (1) consenso/conflitto, che nelle teorie mediali corrispondono ad affermative/critiche, e (2) diversità/pluralismo, nella proposta degli autori si ottengono quattro diverse nozioni di pluralismo mediale. A seconda di quella a cui ci si richiama, varieranno le valutazioni delle condizioni che lo favoriscono o danneggiano e ovviamente anche del ruolo dei media, il che spiega la variabilità degli studi di settore.

Per gli scopi di questo contributo, risulta utile analizzare in dettaglio le prime due nozioni, entrambe basate sul polo “diversità”[3]. Il pluralismo mediale inteso come affirmative diversity, “diversità affermativa”, rimanda all’idea di media come “mercato delle idee” o specchio della società. Questa nozione di pluralismo poggia sulla teoria democratica liberale e ne condivide dunque la tensione al superamento del conflitto sociale e al raggiungimento del consenso. I media devono dunque rappresentare fedelmente, con equilibrio, l’eterogeneità sociale, intesa come diversità di attori, temi e punti di vista. È l’approccio tipico della content analysis e di molti monitoraggi mediali, ma anche delle ricerche incentrate sui “bias dei media di parte”, in cui una copertura equilibrata significa assicurare, spiegano gli autori, trattamento paritario ai partiti, se sono due, o comunque un trattamento in linea con il numero dei seggi posseduto da ciascuno, se sono più di uno. È questa – mutatis mutandis – la visione alla base della nozione di “pluralismo politico” che si trova nella legge italiana sulla par condicio elettorale (Legge n. 28/2000) e nella attività dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) che ne discende.

Il pluralismo inteso invece come critical diversity, “diversità critica”, condivide l’approccio “diversità” e quindi la nozione di media come “specchi della realtà”, che devono rappresentare in modo equilibrato eterogeneità e dissenso sociale, ma si distingue dalla precedente, affirmative diversity perché si pone in linea con le teorie critiche: parte dal presupposto che l’ordine sociale, lungi dall’essere a-problematico, sia caratterizzato da ingiustizie, soprattutto economiche. Chi analizza il pluralismo mediale inteso come “diversità critica” presta dunque particolare attenzione alla dimensione strutturale-produttiva ed economica dei media, cioè alla loro dimensione di industrie, e alla relazione tra questa dimensione ed il grado di diversità dei contenuti mediali. Esempio per eccellenza sono appunto le ricerche sulla proprietà dei media (concentrazione, limiti e assetti della stessa) o su altre caratteristiche strutturali, come il ruolo della pubblicità.

La nozione di pluralismo come critical diversity, che interpreta diversità dei contenuti mediali come risultato di un mediascape competitivo, cioè caratterizzato da varietà interna, intesa segnatamente come operatori di diversa proprietà, è solo uno dei molti possibili approcci. Peraltro, notano Raeijmaekers e Maeseele, è un approccio tra i più passibili di ambiguità (infatti i risultati delle ricerche sul rapporto tra caratteristiche strutturali e contenuti mediali sono spesso contraddittori). In Italia, la Corte Costituzionale ha chiarito, attraverso più sentenze, che il pluralismo è legato alla diversità di opinioni e alla molteplicità delle fonti informative[4], e che può esistere sia nella forma di “pluralismo interno”, quando uno stesso mezzo di informazione offre accesso a una pletora variegata di portatori di opinioni, sia nella forma di “pluralismo esterno”, quando tale varietà si distribuisce su mezzi di informazione diversi.

Quest’ultimo è un punto importante, fissato già dalla sentenza della medesima Corte n. 826 del 1988, dalla quale si evince che il pluralismo esterno non è garantito solo da una pluralità (nel senso di numerosità) di emittenti, ma dalla diversità di voci.[5] Tuttavia, la tutela del pluralismo in Italia, e anche in Europa, si è sviluppata prevalentemente in chiave di diritto della concorrenza e da sempre poggia sull’equazione implicita che concentrazione e pluralismo – comunque lo si intenda – sono inversamente proporzionali. Invece, nota Karppinen (2013, p. 4) “l’aumento della competizione nel mercato mediale può portare ad una maggiore diversità dei contenuti mediali così come ad un ulteriore omogenizzazione”.[6]

Nel paragrafo successivo ripercorrerò a grandi linee la normativa, con particolare riferimento al caso italiano, illustrando l’approccio in chiave di concorrenza e come i suoi limiti si rendano ancor più evidenti nell’ecosistema digitale e in relazione al rapporto tra editori e piattaforme.

Analogie e novità dal TUSMAR al TUSMA: i limiti del pluralismo come concorrenza[7]

Fino al dicembre 2021, la tutela del pluralismo in Italia era demandata al TUSMAR (Testo Unico dei Servizi dei Media Audiovisivi e Radiofonici), adottato nel 2005 e frutto della cosiddetta “Legge Gasparri”, che a questo scopo introduceva speciali controlli da parte di Agcom sulle intese e le operazioni di concentrazione tra imprese nonché sulle soglie di ricavi conseguibili dallo stesso operatore nei mercati inclusi nel c.d. “Sistema Integrato delle Comunicazioni” (SIC). Nel 2020, la Corte di giustizia dell’Unione europea[8] ha però espressamente dichiarato la contrarietà al diritto dell’UE dell’automatismo del sistema previsto dall’art. 43, censurando il principio per cui il solo superamento di determinate soglie configurasse automaticamente una lesione del pluralismo e, viceversa, in modo altrettanto “meccanico”, la detenzione di quote ed intrecci proprietari al di sotto di queste soglie scongiurasse ogni possibile rischio.

L’approccio di determinismo economico, fondato sui principi del diritto antitrust (della concorrenza), così come le soglie di ricavi conseguibili e i limiti alle concentrazioni e intese fra imprese permangono anche nel TUSMA (Testo Unico dei Servizi dei Media Audiovisivi). In vigore dal dicembre 2021, esso affida la tutela del pluralismo all’art. 51, “Posizioni di significativo potere di mercato lesive del pluralismo nel sistema integrato delle comunicazioni”. Neppure le modifiche alla lista dei mercati rientranti nel SIC (Sistema integrato delle Comunicazioni)[9], appaiono sufficienti a superare le criticità rilevate dalla Corte di giustizia nella motivazione della sua sentenza: nell’art. 51, si considerano congiuntamente i ricavi che derivano da mercati che non solo sono tra loro eterogenei ma che sembrano avere poco a che fare con l’informazione.

Un esempio è il mercato della pubblicità online, unica “voce” che riguardi le piattaforme – peraltro, limitatamente a quelle di video-sharing – (include, appunto, anche quella sulle diverse piattaforme, le risorse raccolte da motori di ricerca, social media, ecc.). La pubblicità online, come quella offline, non è un tema di pluralismo (non ci si informa tramite la pubblicità, evidentemente) ma viene inserita perché concorre a determinare il valore del SIC espresso in termini di ricavi degli operatori, che, come detto, è la base per determinare le loro quote di mercato e l’eventuale superamento delle soglie di concentrazione, superamento che determina – adesso solo potenzialmente, non automaticamente – lesione del pluralismo.

Ora, la pubblicità fa certamente parte della catena del valore dell’informazione o comunque è elemento centrale del business dell’informazione, tant’è che il “Media Pluralism Monitor” del 2021[10], il più avanzato strumento per misurare i rischi per il pluralismo dell’informazione e l’indipendenza dei media a livello europeo, individua il principale pericolo dell’ambiente digitale nel fatto che le piattaforme drenino le risorse della pubblicità (il 66% è distribuito tra le tre principali big tech, Google, Amazon e Facebook; il restante terzo tra gli editori). Infatti, è proprio la competizione delle big tech con gli editori tradizionali per la raccolta pubblicitaria, per l’attenzione degli utenti, e i dati degli utenti – anche mediante fake news e quindi senza alcun incentivo al pluralismo dei media – a costituire una delle argomentazioni addotte da chi sostiene il primato di un approccio antitrust per contrastare i danni ai processi democratici nei mercati data-driven delle piattaforme digitali[11].

Qui però si impongono due considerazioni, che servono ad illuminare i limiti dell’approccio antitrust, e che inducono a ripensare (1) il ruolo della pubblicità rispetto al pluralismo; (2) il ruolo delle piattaforme rispetto al pluralismo.

Sul primo punto, quando si parla di pubblicità ai fini del pluralismo informativo, questa dovrebbe essere circoscritta ai contenuti informativi. Se una piattaforma si arricchisce solo tramite la raccolta di pubblicità online associata a servizi pornografici, tale raccolta in alcun modo lederà il pluralismo. Se, al contrario, un solo TG raccogliesse il 100% della pubblicità online, certamente questo costituirebbe sintomo da tenere in considerazione per la valutazione dello stato di salute del pluralismo informativo, poiché tutte le risorse finanziarie disponibili andrebbero a vantaggio di un solo news media.

Quanto al secondo punto, il ruolo delle piattaforme rispetto al pluralismo dell’informazione non può essere interpretato solo in modo unidirezionale, ovvero nel senso di una “cannibalizzazione” da parte delle piattaforme della raccolta pubblicitaria, vitale per la sostenibilità economica del sistema dell’informazione tutto, con relativa penalizzazione della qualità e pluralismo dello stesso. C’è anche un altro lato della medaglia: è infatti innegabile il ruolo di aggregatori di notizie, motori di ricerca, social media e altri servizi online nell’accesso del grande pubblico ad una pluralità di contenuti informativi prodotti da terzi, incluse le fonti poco note e che diversamente rimarrebbero tali.

Questo va a vantaggio del pluralismo, quindi della cittadinanza, ma costituisce anche importante “vetrina” per i media tradizionali, che riescono così ad assicurarsi una quota rilevante nell’attenzione degli utenti. Stando alle nostre valutazioni su dati pubblici risalenti (Agcom 2018)[12], le piattaforme rappresentano la “prima pagina” di tutti i quotidiani per il 54% circa dei lettori, che si informa accedendo dai motori di ricerca, dai social e dagli aggregatori di notizie. Per i giornali è possibile stimare un limite massimo di ricavi derivanti dal traffico reindirizzato da algoritmi in circa 500 milioni di euro (cioè valorizzando il 54% degli accessi all’informazione da piattaforme). Facendo le dovute proporzioni, sono, a confronto, molto più gli editori che traggono benefici dal rapporto con le piattaforme che non il contrario: i contenuti giornalistici rappresentano per queste ultime circa il 3-4% dei contenuti monetizzati tramite ricavi da pubblicità online, inferiori a 100 milioni di euro (4% del totale ricavi).

Come si vede, al di là di ogni ulteriore considerazione, il punto è che i ricavi, di per sé, sono un “cattivo” indicatore dello stato di salute del pluralismo informativo, cioè un indicatore non esaustivo e talvolta persino fuorviante.

Torniamo adesso, per un attimo, alla ricognizione di Raeijmaekers e Maeseele. Tutti e tre i modelli democratici – liberale, deliberativo, agonistico – considerano la società contemporanea complessa ed eterogenea, preoccupandosi di come le controversie sociali possano essere trattate in modo democratico, sia in politica che nei media. Che si tratti di puntare alla loro risoluzione (come nei modelli liberale e deliberativo) o di considerarle costitutive dell’ordine sociale (modello agonistico), quando si arriva ai media, l’accento, insomma, è sull’importanza che essi diano spazio alla pluralità, non importa se intesa come diversità empirica (attori, temi, fonti), cioè adeguata rappresentazione della natura composita della società, o come diversità ideologica, cioè di opinioni e visioni sulla società (frames, chiavi di trattazione).

In ogni caso, dobbiamo riconoscere che la pluralità non può essere garantita dalla sola concorrenza, né dalla limitazione del grado di concentrazione del mercato. Questo accade perché il pluralismo è un fallimento degli equilibri di mercato tra privati, vale a dire un obiettivo di politica sociale non necessariamente perseguibile dalle imprese operanti nel settore dei mezzi di comunicazione. In questo senso, anche una situazione concorrenziale potrebbe ledere il pluralismo se i mezzi di comunicazione dovessero prediligere pochi portatori di opinione (assenza di pluralismo esterno), magari perché più capaci di attirare pubblico e quindi profitti. All’opposto, per estremo, una situazione monopolistica potrebbe assicurare condizioni di pluralismo se i contenuti informativi accogliessero una pluralità di punti di vista, di estrazione e orientamento culturale diversi (una situazione di massimizzazione del pluralismo interno).

Con il TUSMA, va detto, sembra perlomeno emergere il tentativo del legislatore di introdurre una nozione di pluralismo che finalmente non sia riconducibile alla sola matrice di diritto della concorrenza, ma tenga in considerazione una nozione di pluralità riferita ai contenuti. Ad esempio, nell’art. 4, il pluralismo è inteso come “l’apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose”. Non solo: per la prima volta, si parla di “pluralismo” in relazione allo specifico dell’informazione: sembrerebbe scontato, trattandosi della tutela del pluralismo informativo, appunto, e tuttavia nell’art. 43 del previgente TUSMAR non compariva un solo accenno in tal senso!

Nel nuovo testo, ancora all’art. 4, si parla invece di “accesso dell’utente, secondo criteri di non discriminazione, ad un’ampia varietà di informazioni e di contenuti offerti da una pluralità di operatori nazionali, locali e di altri Stati membri dell’Unione europea”, mentre l’art. 56 menziona espressamente la “pluralità di linee editoriali” e, ancor più rilevante, l’art. 69, “Principio di specialità”, stabilisce che il TUSMA prevale sul CECE (Codice Europeo delle Comunicazioni Elettroniche) “in considerazione degli obiettivi di tutela del pluralismo”: un’implicita “ammissione” che la concorrenza, tutelata dal CECE, non è in grado, da sola, di assicurare un adeguato livello di pluralismo.

Ma soprattutto, nell’art. 51, dedicato alla tutela del pluralismo, il divieto di posizioni di significativo potere di mercato lesive del pluralismo è riferito non più, genericamente, solo al “mercato” ma finalmente anche allo specifico dei “servizi informativi”. Inoltre, si introducono per la prima volta indici non economici e concorrenziali, con ciò delineando una sfida metodologica inedita, in considerazione della natura multimediale e convergente della maggior parte delle media company, dei molteplici veicoli di distribuzione dei contenuti mediali, e delle differenti metriche implicate.

Conclusioni e proposte 

In questo contributo abbiamo illustrato diverse nozioni di pluralismo, riconducibili al ruolo attribuito ai media da diverse scuole di teoria democratica, per sostenere che la tutela del pluralismo, qualunque nozione si adotti, non può esaurirsi nel solo approccio antitrust. In particolare, abbiamo notato che assumere i ricavi – ad esempio quelli pubblicitari – come parametro centrale possa portare a diagnosi distorte dello stato di salute del pluralismo, soprattutto all’interno dell’ecosistema digitale, dove più intensi e reciproci si fanno i legami tra i diversi attori della filiera dell’informazione. Infine, abbiamo sostenuto che ogni valutazione sui rischi e sui fattori di potenziale lesione del pluralismo informativo debba essere condotta, appunto, in relazione alla complessiva offerta di prodotti e servizi di informazione e non genericamente, al “mercato”.

Due, allora, ci sembrano le operazioni necessarie per ripensare la tutela di questo importante bene collettivo in una chiave che trascenda il determinismo economico della normativa vigente e sviluppi ciò che il nuovo TUSMA ha introdotto in nuce:  1) riportare al centro del sistema il bene stesso, procedendo dunque a definire con maggior chiarezza non solo il termine “pluralismo”, come abbiamo provato a fare, ma anche il termine “informativo”, così da poter individuare la tipologia dei contenuti e servizi mediali che rilevano ai fini della normativa;
2) sviluppare metodologie affidabili per misurare lo stato della rappresentazione mediale della diversità delle voci, ovvero individuare criteri, condizioni e forme dell’accesso dei portatori di opinione ai mezzi di informazione.

Per quanto riguarda il primo punto, le teorie dei media e della comunicazione ascrivono al macro-genere dell’informazione e della produzione documentaristica tutti quei prodotti e generi mediali deputati a rappresentare la realtà fattuale, e con i quali il pubblico stabilisce un “contratto di veridizione”, attendendosi, cioè, che tali prodotti raccontino il vero. Il “vero” è da intendersi non come contrapposto a “falso”, giacché la verità – anche giornalistica – è concetto opinabile, bensì contrapposto a “finto”, nel senso di artefatto, o frutto di invenzione immaginativa, come la fiction. Naturalmente, anche la fiction, così come quell’ampia galassia di prodotti a metà tra “vero” e “finto” – tipo il factual entertainment – concorrono fortemente alla costruzione sociale della realtà da parte delle audience, alla formazione dell’opinione pubblica e degli immaginari collettivi. Tuttavia, ai fini della delimitazione del nostro oggetto di analisi, rilevano i soli contenuti propriamente informativi, cioè caratterizzati da fonti giornalistiche e dalla correlazione con i temi dell’attualità e della sfera pubblica, come politica, economia, finanza, cultura, società, costume, attualità, cronaca, ecc. Esempi di “prodotto di informazione” sono, naturalmente, quotidiani, telegiornali e giornali radio, ma anche programmi di approfondimento giornalistico, dibattiti, talk-show, infotainment, ecc.

Avendo chiarito cosa si intende per “informazione”, diviene necessario circoscrivere con attenzione l’ambito oggettivo della disciplina: nei mercati non operano soggetti fornitori di soli contenuti informativi, quindi è necessario individuare quali servizi informativi sono presenti nella gamma dei servizi offerti dalle media company (online e offline) o da imprese diverse, quali per esempio le piattaforme online. L’individuazione dei format e della rilevanza dei contenuti informativi, rispetto alla loro diffusione, dovrebbe essere oggetto di attento approfondimento proprio per evitare che siano impiegati strumenti di tutela del pluralismo che in realtà possono mettere fuori fuoco l’obiettivo finale di garantire una diversità culturale delle fonti informative completa ed effettiva.

Veniamo alla seconda “operazione”, ovvero la misurazione dello stato della rappresentazione mediale della diversità delle opinioni. L’idea è che piattaforme online e media company (online e offline) dovrebbero essere viste come intermediari che mettono in contatto i produttori di contenuti informativi (portatori di opinioni culturali diverse) con i fruitori o i destinatari finali di tali contenuti (il pubblico). La media company dovrebbe essere chiamata quindi a fornire in modo trasparente e non discriminatorio il più ampio accesso ai produttori di contenuti e servizi informativi con il fine di assicurare la visibilità dell’intero spettro delle diversità culturali di una società. Invece, attualmente, non sono note lecondizioni di accesso alle media company da parte dei portatori di opinioni.

Il primo passo da compiere in tal senso è dunque una ricognizione dei criteri e delle condizioni di accesso, in assenza della quale non potrà essere sviluppata alcuna efficace misura a garanzia della completezza e della diversità delle fonti informative. Il motto “conoscere per deliberare” significa introdurre una evidence-based regulation, che consenta alle autorità di settore di decidere sulla base di dati quantificati e verificabili.

NOTE

[1] Le opinioni espresse hanno carattere personale e non impegnano in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza
[2] D. Raeijmaekers and P. Maeseele, Media, Pluralism and democracy: what’s in a name?, Media, Culture & Society, Volume 37, Issue 7, October 2015, pp. 1042 – 1059, https://doi.org/10.1177/0163443715591670
[3] Le altre due nozioni, basate sul polo “pluralismo”, sono “affirmative pluralism” e “critical pluralism”, illustrate da D. Raeijmaekers and P. MaeseeleMedia, Pluralism and democracy: what’s in a name?, Media, Culture & Society, Volume 37, Issue 7, October 2015, pp. 1042 – 1059, https://doi.org/10.1177/0163443715591670, a p. 1051 e ss.
[4] Cfr. la sentenza della Corte Costituzionale n. 112 del 26 marzo 1993, par. 7.
[5] Cfr. la sentenza della Corte Costituzionale n. n. 826 del 14 luglio 1988, par.11, dove si legge: “Nell’accingersi ad esaminare le questioni attualmente portate alla sua attenzione, la Corte ritiene necessario ribadire il valore centrale del pluralismo in un ordinamento democratico. Allo stesso fine reputa indispensabile, altresì, chiarire che il pluralismo dell’informazione radiotelevisiva significa, innanzitutto, possibilità di ingresso, nell’ambito dell’emittenza pubblica e di quella privata, di quante più voci consentano i mezzi tecnici, con la concreta possibilità nell’emittenza privata – perché il pluralismo esterno sia effettivo e non meramente fittizio – che i soggetti portatori di opinioni diverse possano esprimersi senza il pericolo di essere emarginati a causa dei processi di concentrazione delle risorse tecniche ed economiche nelle mani di uno o di pochi e senza essere menomati nella loro autonomia. Sotto altro profilo, il pluralismo si manifesta nella concreta possibilità di scelta, per tutti i cittadini, tra una molteplicità di fonti informative, scelta che non sarebbe effettiva se il pubblico al quale si rivolgono i mezzi di comunicazione audiovisiva non fosse in condizione di disporre, tanto nel quadro del settore pubblico che in quello privato, di programmi che garantiscono l’espressione di tendenze aventi caratteri eterogenei”. La sentenza n. 420 del 7 Dicembre 1994, poi, parla espressamente di pluralismo interno ed esterno, par. 14.
[6] K. Karppinen, Rethinking Media Pluralism, Fordham University Press, 2013.
[7] Parte delle riflessioni contenute in questo paragrafo sono state esposte nell’articolo: Pluralismo informativo, come tutelarlo nell’era digitale, consultabile su: https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/giomi-agcom-pluralismo-informativo-come-tutelarlo-nellera-digitale/
[8] Nella causa C‑719/18, Vivendi SA, sentenza della Corte (Quinta Sezione) del 3 settembre 2020.
[9] L’art. 3, comma 1, lettera z), del D.Lgs n. 208/2021, testo unico per la fornitura di servizi di media audiovisivi (TUSMA), definisce il Sistema Integrato delle Comunicazioni come: “il settore economico che comprende le attività di stampa quotidiana e periodica; delle agenzie di stampa; di editoria elettronica anche per il tramite di Internet; di radio e servizi di media audiovisivi e radiofonici, cinema, pubblicità esterna, sponsorizzazioni e pubblicità online”.
[10] R. Carlini, E. Brogi, Monitoring Media Pluralism in the Digital Era, Application of the Media Pluralism Monitor in the European Union, Albania, Montenegro, the Republic of North Macedonia, Serbia & Turkey in the year 2020, Country report: Italy, Chapter 4, https://cadmus.eui.eu/bitstream/handle/1814/71951/italy_results_mpm_2021_cmpf.pdf?sequence=4[11] Per una recente ricognizione di questo approccio, si veda V. H. S. E. Robertson, Antitrust, Big Tech, and Democracy: A Research Agenda, The Antitrust Bulletin 2022, Vol. 67(2), p. 273.
[12] AGCOM, Rapporto sul consumo di informazione, 2018, RAPPORTO SUL CONSUMO DI INFORMAZIONE (agcom.it)

ELISA GIOMI

Professoressa Associata in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università degli Studi Roma Tre, dove insegna Sociologia della Comunicazione e dei Media; Forme del racconto televisivo; Comunicazione Pubblicitaria. È autrice di oltre 50 pubblicazioni per le principali case editrici italiane e internazionali e per riviste peer-reviewed italiane e straniere.
Ha coordinato progetti scientifici nazionali e internazionali finalizzati allo studio dei media e all’individuazione di buone pratiche di settore, per conto di vari enti e Istituzioni tra cui: Parlamento Europeo, EJC-European Journalism Centre, EIGE-European Institute for Gender Equality.
Collabora alla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere.
Con decreto del Presidente della Repubblica è stata nominata il 15 settembre 2020 componente dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.

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