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Ordine dei Giornalisti - Consiglio Nazionale
14/02/2025
Il problema della rilevanza del giornalismo
Luca De Biase
Giornalista e saggista
In un momento di incertezza, in un periodo storico nel quale avanzano i regimi dittatoriali e nel quale persino alcune democrazie sono guidate da politici che seguono logiche autoritarie, un buon giornalismo autorevole e indipendente è più necessario che mai. O almeno questa è la convinzione che tiene alto il morale della maggior parte dei leader delle aziende editoriali intervistate dal Reuters Institute per la sua ricerca annuale sulle tendenze nel giornalismo[1]. D’altra parte, la stessa maggioranza è convinta anche che l’affermazione dei valori del giornalismo sarà messa a dura prova da avversari sempre più duri e sfrenati, in un contesto che per i prossimi anni si annuncia sempre più polarizzato.
La competizione di piattaforme che si occupano apparentemente di informazione ma senza alcuna attenzione per il metodo giornalistico, come X, sarà tanto più forte quanto meno il pubblico sarà interessato a distinguere le fonti in base alla loro attendibilità: il motto di Elon Musk dedicato a chi scrive su X, “ora voi siete i media”, suggerisce in realtà che i vecchi giornali indipendenti sono obsoleti. Una convinzione molto coerente con le opinioni più volte espresse dal nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.
Su che cosa si gioca la competizione delle piattaforme sociali con quello che resta dei “legacy media”? Tre ordini di fattori sono evidentemente importanti. 1. Il successo economico delle aziende coinvolte, gli editori e le piattaforme. 2. Il tempo e l’attenzione che il pubblico riserva alle informazioni di origine giornalistica rispetto ai messaggi che si trovano nelle piattaforme. 3. La rilevanza che il pubblico attribuisce alle informazioni giornalistiche rispetto a quelle che circolano sui social network.
Chi può vincere la competizione su questi piani? L’esperienza recente suggerisce che le piattaforme hanno sopravanzato clamorosamente gli editori, almeno per quanto riguarda i primi due fattori: la capacità di generare profitti dimostrata dalle piattaforme non ha paragoni nel mondo editoriale; mentre la quota di tempo e attenzione del pubblico conquistata dalle piattaforme è certamente aumentata a scapito di quella dei giornali. La domanda a questo punto è chiara: la competizione sul piano della rilevanza è ancora aperta? Se lo è può diventare la base di un rilancio del giornalismo per il prossimo futuro?
Per rispondere occorre ricostruire la situazione che si è creata negli ultimi vent’anni, approfondire il concetto e la pratica della valutazione della rilevanza delle informazioni, immaginare che cosa questa possa significare per i progetti futuri di chi si occupa di giornalismo.
Una sconfitta durata trent’anni
Nel 1995, la quotazione in borsa di Netscape ha annunciato l’avvio del successo finanziario delle piattaforme digitali. La bolla speculativa delle dot-com, tra il 1998 e il 2000 ha bruciato risorse ingenti dei risparmiatori, ma ha anche creato un contesto economico favorevole alla crescita di alcune aziende destinate a giganteggiare, come Amazon e Google. La finanza ha messo a disposizione di aziende che si concentravano sulla tecnologia per la gestione dell’informazione risorse non paragonabili a quelle dedicate ad altri settori, nella convinzione che i loro risultati sarebbero stati eccellenti, grazie alle posizioni fisiologicamente oligopolistiche che potevano conquistare a causa dell’”effetto-rete”, che su internet protegge chi vince dalla concorrenza.
In molti casi, la convinzione è stata confermata dai fatti. In effetti, le imprese leader nella capacità di cogliere le opportunità offerte da internet erano piuttosto piccole nel 2000: oggi sono gigantesche. Le prime dieci aziende per capitalizzazione del mondo erano in maggioranza petrolifere e automobilistiche all’inizio del millennio: oggi sono quasi tutte digitali. Nel corso del primo quarto del XXI secolo, le piattaforme digitali hanno vinto e i media analogici, tra i quali i giornali, hanno perso.
Secondo i calcoli di Pwc, nel 2020, tutti i giornali del mondo fatturavano circa 110 miliardi di dollari. Erano stati 140 miliardi nel 2010. La maggior parte del calo è dovuta alla pubblicità perduta (il fatturato da abbonamenti e acquisti dei giornali è rimasto costante, sui 63 miliardi, nei cinque anni considerati)[2]. Nello stesso periodo, la raccolta pubblicitaria di Google è passata da 74 miliardi a 160 miliardi. Google fatturava pochissimo nel 2000. Oggi fattura oltre 330 miliardi e genera un utile prima delle tasse di 111 miliardi: una cifra più grande dell’intero fatturato di tutti i giornali del mondo (peraltro, le tasse che Google paga non superano i 18 miliardi)[3].
I media analogici si sono trovati spiazzati di fronte alla tecnologia digitale e hanno colpevolmente impiegato troppo tempo per comprendere la portata del cambiamento. Del resto, era difficile sviluppare una nuova mentalità, adatta al contesto digitale, per aziende abituate a godere di grande potere, notorietà e prestigio. Nel mondo analogico controllavano la risorsa scarsa per eccellenza: lo spazio per la pubblicazione. L’allocazione dei centimetri quadrati di giornale e dei minuti di televisione era decisa dagli editori: il valore di quegli spazi scarsi era tanto più elevato quanto più significativa era la domanda. Con il digitale, invece, lo spazio non era più una risorsa scarsa. Anzi, era “virtualmente” infinita. Il prezzo dei centimetri quadrati crollava. La risorsa scarsa non era più controllata dall’offerta ma dalla domanda: ad essere scarso, nel mondo digitale, era piuttosto il tempo che il pubblico poteva dedicare ai media. Era scarsa l’attenzione che il pubblico poteva concedere. E poiché l’offerta si moltiplicava, il bisogno di gestire quelle scarsità divenne l’opportunità per il servizio di intermediazione, distribuzione, selezione che fu offerto dalle piattaforme digitali.
E dunque il pubblico cedette alle piattaforme la gestione del suo tempo e della sua attenzione. E poiché la logica industriale di quei servizi richiedeva una standardizzazione delle interfacce, dei modelli di business, delle soluzioni tecnologiche, si avviò una sorta di omogeneizzazione della qualità percepita dei messaggi: il discorso del presidente e la cucciolata di gattini potevano essere messi sullo stesso piano e competere per il tempo e l’attenzione del pubblico.
Le conseguenze sarebbero state imponenti e complesse. All’inizio le piattaforme conquistarono il centro della scena ed espropriarono i giornali di gran parte della distribuzione e del reddito. Alla fine, scoprirono che l’informazione giornalistica poteva essere anche trascurata senza conseguenze per l’importanza delle piattaforme.
Insomma. Non solo le risorse economiche del mercato pubblicitario si spostarono drammaticamente verso le piattaforme che garantivano un servizio agli inserzionisti chiaramente migliore per il controllo del risultato delle campagne. Ma lo stesso accesso alle notizie passò progressivamente per queste piattaforme che a un certo punto governarono gran parte del traffico verso i siti giornalistici e drenarono gran parte dei budget pubblicitari, prima di sviluppare nuove strategie, sempre meno pensate per le informazioni, anche per il progressivo disinteresse del pubblico per le notizie. Negli ultimi due anni, il traffico sui siti dei giornali proveniente dai social network è drasticamente diminuito: – 67% da Facebook, – 50% da Twitter-X[4]. E mentre i giornali se ne sono lamentati, per i social network non è cambiato nulla. Lo dimostra un caso locale ma significativo: per spiegare la decisione di non consentire la pubblicazione di link a notizie giornalistiche su Facebook in Canada dopo l’introduzione di una legge che obbligava l’azienda a pagare per questo, Meta ha rivelato che solo il 3% dei post di Facebook in quel paese contiene link a notizie giornalistiche e che i canadesi chiedono di vedere su Facebook meno notizie e contenuti riguardanti la politica[5].
L’impressione di molti osservatori, di fronte a queste notizie, è stata univoca: i social network tendono a essere sempre meno nel business delle notizie. Si concentrano sul business dell’intrattenimento. Walter Quattrociocchi, della Sapienza di Roma, lo dimostra da anni con i suoi paper: i social network non sono nel business dell’informazione ma dell’entertainment.
L’abbandono delle notizie
I social network hanno dunque prima assorbito e poi abbandonato la distribuzione delle notizie giornalistiche. Il processo di assorbimento è stato motivato dal successo delle piattaforme nell’attrarre il pubblico, il conseguente tentativo dei giornali di inseguire la loro audience nel nuovo spazio, la scoperta che i post con le notizie dei giornali non accendevano l’attenzione delle persone quanto le più curiose banalità e le più vistose bugie, gli sfoghi di rabbia o paura e le espressioni di odio o violenza. Gli algoritmi di raccomandazione delle piattaforme erano concepiti per rilanciare i post che meglio conquistavano l’attenzione e dunque progressivamente esclusero le notizie giornalistiche dal flusso dei messaggi da amplificare, di fatto censurandoli.
Tutto questo è avvenuto in parallelo con una successione di crisi che oggettivamente percorrevano il pianeta. Gli allarmi climatici, le guerre sanguinose, le epidemie, non erano certo coerenti con un sistema mediatico concentrato sull’entertainment. E le polemiche sempre più spicciole che le piattaforme, per la loro struttura, suggerivano ai partiti di condurre, non aiutarono il pubblico a mantenere accesa la volontà di impegnarsi per comprendere a fondo la portata delle argomentazioni che riguardavano le decisioni politiche da prendere per affrontare le sfide della contemporaneità.
In breve, si osservò una progressiva disaffezione delle persone per i giornali. E nelle democrazie un’altrettanto progressiva disaffezione per la politica, uno degli argomenti principali del lavoro dei giornali. Il 39% delle persone oggi evita accuratamente le notizie: non ne vuole sapere perché generano ansia, secondo il grande studio del Reuters Institute for the Study of Journalism che analizza i media di 47 paesi di tutti i continenti[6]. Un carotaggio dello stesso istituto di ricerca mostra che l’interesse per le notizie è dimezzato nel Regno Unito dal 2015 ed è sceso di un terzo in Argentina dal 2017, con un ritmo simile alla riduzione della partecipazione politica.
Non si può certo dire che non si sia più discusso di politica sulle piattaforme sociali. Anzi. Ma lo si è fatto sempre meno sulla base delle notizie giornalistiche e dell’agenda che i giornali tentavano di imporre. In realtà, si è cominciato a discutere nel modo consono alle piattaforme: accettando senza autocritica i propri pregiudizi di conferma, aggregandosi per gruppi di opinioni omogenee, subendo una logica della fisica sociale che conduce alla polarizzazione delle posizioni ideali e delle relazioni personali, fino a lasciare che gli algoritmi di raccomandazione alimentassero una radicalizzazione delle convinzioni, soprattutto sulle questioni più divisive[7].
In pratica, la politica è stata assorbita nello spettacolo e lo spettacolo è stato assorbito nella logica algoritmica delle piattaforme che avevano un solo obiettivo: catturare quanto più tempo e attenzione possibile dai cittadini. Solo in Italia, tra il 2008 e il 2018, le persone connesse passano da 15 milioni a 43 milioni: la maggior parte entrano in gioco senza una lunga esperienza del web sperimentato al computer, ma soprattutto sulla scorta dell’opportunità di usare gli smartphone e i social network. L’interfaccia e gli algoritmi li attirano inesorabilmente: due ore al giorno di social network diventano la media[8] che non è troppo cambiata in seguito[9]. Il sistema della conoscenza razionale, documentata, impegnativa, si immerge nel minestrone del divertimento teleguidato dagli algoritmi dei social, abbatte il senso critico e rende difficile valutare la qualità delle informazioni. Il 59% degli intervistati da Reuters Institute si dichiara preoccupato dalla difficoltà di distinguere tra le notizie vere e false[10].
Sulla base di questa preoccupazione si può ricostruire una strategia di fondo per il giornalismo?
L’ipotesi è che l’ipertrofia del tempo passato in rete per il divertimento di stare nei social non abbia eliminato la necessità di conoscere come stanno le cose in modo razionale e documentato. Non necessariamente solo per quanto riguarda la politica. Anzi. Questa necessità resta importante anche per la salute, per la gestione dei risparmi, per la vita culturale in città, per l’educazione. Ottenere informazioni rilevanti su questi argomenti è essenziale per prendere decisioni corrette e meditate.
Questa considerazione di buon senso non si è ancora tradotta in una nuova tendenza. Anzi. I dati in Italia continuano a mostrare un aumento dei social e una diminuzione dell’accesso alle notizie giornalistiche: il tempo sui social è aumentato nel 2024 di un magro 0,1% rispetto al 2023, ma il tempo passato a leggere i giornali è diminuito del 10,9% nello stesso periodo[11].
Non è detto che questa tendenza non si possa cambiare. La qualità della documentazione che sostiene le informazioni deve riconquistare il suo posto negli interessi dei cittadini. E questo potrebbe essere ottenuto riuscendo a connettere quella qualità alla possibilità avere una vita civica più sana e razionale. Un percorso in questo senso può essere pensato. La strada è in salita, ma escluderne la possibilità sarebbe un errore.
La riscossa della rilevanza
Ma se questo è vero, il mondo del giornalismo può trovare una sua rivincita sul piano della rilevanza? Per rispondere occorre prima di tutto discutere di che cosa sia la rilevanza.
In prima istanza, la rilevanza potrebbe essere definita come la qualità dell’informazione che conduce chi ne viene a conoscenza a modificare un suo comportamento. Ma, probabilmente, non basta: dovrebbe modificare i comportamenti in una direzione razionale, empiricamente motivata, capace di indurre a decisioni per quanto possibile vantaggiose. Per la persona e per la sua comunità.
Nessuno ha detto che sia facile. In effetti, la rilevanza non è un valore assoluto, dipende molto dal contesto. Ci può essere la qualità dell’informazione che serve a chi decide in modo razionale: non solo per la partecipazione politica, come si diceva, ma anche per le finanze personali, per le scelte sanitarie, per gli investimenti culturali. Ma può modificare i comportamenti anche l’informazione che mostra la volontà del potere: questa è rilevante sia per chi è orientato ad adeguarsi a quella volontà, sia per chi intende opporsi. E può essere capace di modificare i comportamenti anche l’informazione presentata in modo da manipolare la consapevolezza delle persone: insomma, la propaganda, anche in forma di notizia e soprattutto in forma di selezione delle notizie, magari all’interno di contenitori divertenti, attraenti, spettacolari, emozionali. Il che significa che la rilevanza da sola non è un valore sufficiente a definire una strategia per la riscossa del giornalismo: occorre vincere una serie di battaglie. Per la credibilità, la legittimità, la fruibilità.
Questi valori si possono affermare nei giornali tradizionali o in contesti nuovi. Occorre affermarli come alternativi all’establishment costituito dal potere dei social media? Quale può essere un modo per valutare la possibilità di riuscita?
Innanzitutto, occorre scollegare la ricerca di soluzioni dalla speranza che si ripresentino le condizioni del passato. Le sole strategie vincenti sono quelle che si sincronizzano con il futuro. L’informazione giornalistica era rilevante nel contesto sociale ed economico del Novecento, quando l’ascensore sociale funzionava e una delle attività utili per salirci sopra era appunto la lettura dei giornali: informazione di qualità e vantaggi per le persone potevano andare in accordo. Oggi l’ascensore non funziona più come prima e le attività che servono a salirci vanno riprogettate.
Per rispondere, dunque, in modo contemporaneo forse occorre distinguere: l’informazione di qualità non è necessariamente il prodotto dei giornali e dei giornalisti. È piuttosto il frutto del giornalismo. In effetti, anche se è controintuitivo, il legame tra giornali, giornalisti e giornalismo non è scontato. Almeno se si intende il giornalismo come quella disciplina di ricerca, artigiana ma rigorosa, che si svolge seguendo un metodo con il quale si documenta correttamente l’informazione su come stanno le cose soprattutto nell’attualità. Un metodo di indipendenza dalle fonti, di chiarezza espositiva, di ricerca dell’obiettività nella documentazione e nella verifica, al servizio del pubblico.
La fiducia nel giornalismo si può riconquistare. Richiede una certa educazione del pubblico, perché apprenda ad assaporare le informazioni di qualità come apprezza gli altri frutti dell’artigianità di qualità, riconoscendo il valore del lavoro che serve a realizzarla. Soprattutto richiede una coerenza operativa e una precisione comportamentale che va riconquistata. I modelli di business, le scelte sulla razionalità o l’emotività del contenuto informativo, l’indipendenza dai finanziatori, la facilità d’uso delle interfacce e la riconoscibilità del lavoro che è stato necessario per produrre l’informazione sono tutti elementi che servono alla riconquista di quella fiducia in chi fa quell’informazione.
Non c’è dubbio che alcuni giornali – anche dopo l’avvento dei social network – sono riusciti a riprendersi e a crescere. E alcuni nuovi giornali sono riusciti ad affermarsi, ottenendo risultati economici e culturali di primissimo ordine. Ma bisogna anche ammettere che altri giornali hanno ceduto alla tentazione di seguire l’esempio che veniva dai social e aprire la porta all’emotività, alla parzialità, all’interesse dei finanziatori.
C’è un’idea alta del lavoro dei giornali. È un’idea dei giornali come garanti della qualità della convivenza, come custodi della trasparenza del potere, come costruttori delle relazioni tra le persone e il contesto, come alimento essenziale dell’esperienza di una comunità. Ma forse la più bella definizione del loro lavoro è: “il giornalismo è la prima bozza della storia”. Una definizione che funziona anche se non tutti i giornali se ne lasciano ispirare.
E allora bisogna ammettere che il giornalismo può essere rilanciato anche fuori dai giornali, da chi usa le possibilità offerte da internet per distribuire, rilanciare, produrre informazioni di qualità, riconoscendone il valore e avendo a cuore il metodo che serve a produrle. I cittadini che possono aiutare in questa direzione ci sono sempre stati, la loro forza può essere aumentata da internet, soprattutto in alleanza con chi ritiene di fare giornalismo professionalmente. In un contesto nel quale la pratica della disciplina del giornalismo si diffonde, ci sarà più spazio anche per la sostenibilità di chi ne fa una professione. Non è un richiamo generico alla collaborazione tra cittadini e professionisti del giornalismo. I manager, i medici, gli educatori, i finanzieri, gli imprenditori e molte altre categorie non possono permettersi di vivere in un mondo nel quale non ci sia modo di trovare informazione di qualità e di distinguerla dalla disinformazione. Nella loro attività dovranno imparare a valutare le notizie per come arrivano. Prendendo consapevolezza che così facendo contribuiscono al giornalismo impareranno a valutare meglio il lavoro dei professionisti della disciplina.
Sta di fatto che, come si è visto, la rilevanza è un concetto relativo al contesto nel quale si valuta. E se le logiche dei media sui quali le persone passano il loro tempo inducono a valutare rilevante, cioè tale da cambiare i comportamenti, solo l’informazione che è prodotta per fare propaganda, allora anche questa qualità non salverà il giornalismo. Il che significa che per valorizzare il lavoro di chi produce informazione rilevante per le scelte razionali occorrono contesti mediatici capaci di trovare nuovo spazio nella mediasfera.
Insomma, l’ipotesi da indagare è che sia possibile che si sviluppino luoghi della rete nei quali la collaborazione intorno alla disciplina del giornalismo si possa sviluppare. Non è scontato. Ma qualcosa del genere si può progettare. Tenendo presente che dimostrare la rilevanza e il vantaggio di dedicare tempo all’informazione di qualità, appunto, non basterà: occorrerà che quei luoghi abbiano interfacce e modalità di fruizione all’altezza della concorrenza dei social. Le esperienze mediatiche migliori sono quelle che uniscono molti motivi di rilevanza: hanno un impatto, sono esperienze di apprendimento e, anche per questo, sono divertenti.
Progettare il futuro? Scenari
È possibile progettare una strategia per avviare un processo che conduca a rivalutare la rilevanza del giornalismo? Occorre tener presente che il problema riguarda il rapporto tra il metodo con il quale viene trovata informazione correttamente documentata e quello che poi i cittadini se ne fanno delle informazioni. Quindi le proposte di progetto vanno incardinate in un insieme di scenari che possono collegare il modo di fare informazione e l’impatto che può avere.
Non è questa la sede per sviluppare scenari completi e complessi. Ma si può dire che nel dibattito sulle trasformazioni dell’ecosistema dei media, le prospettive del giornalismo vengono raccontate spesso nel contesto di alcune narrative piuttosto diffuse e vagamente generazionali.
La prima, legata all’esperienza di chi ha vissuto lo sviluppo dei media di massa del Dopoguerra, si potrebbe definire “declinista” e si può riassumere in poche convinzioni: da trent’anni il giornalismo è sempre meno rilevante, spiazzato da sorgenti diverse di informazione apparentemente più adatte al contesto dominato dalle grandi piattaforme che dominano la mediasfera digitale. I giornali di attualità perdono pubblico, le televisioni si arroccano sul pubblico più anziano, i nuovi giornali online non sono quasi mai sostitutivi di ciò che avveniva in passato[12]. In questa prospettiva, il futuro del giornalismo è irrecuperabilmente declinante.
La seconda narrativa, più adatta al mondo dei media targettizzati degli anni Novanta e successivi, si potrebbe definire “agnostica” e si può riassumere in precisi preconcetti: nel mercato delle idee, il giornalismo serve a costruire brand mediatici capaci di attirare inserzioni pubblicitarie di valore per i target precisi che possono essere coltivati anche con un giornalismo specializzato – per temi o per approcci ideologici. In questa prospettiva, il futuro del giornalismo non è più importante del futuro della pubblicità e delle diverse soluzioni mediatiche che garantiscono il contatto con il pubblico necessario, appunto, alla pubblicità.
Una terza prospettiva, più orientata a sottolineare la funzione del giornalismo nella costruzione della comunità in un contesto mediatico pienamente dominato dalle piattaforme digitali, si potrebbe definire “doverista” e parte da alcune assunzioni: per funzionare, la società ha bisogno di conoscere come stanno le cose altrimenti si trasforma in un magma senza capacità di sintesi decisionale che non sia la prevaricazione e la manipolazione della realtà. Per questo le prospettive del giornalismo sono positive, purché si sviluppino nuove imprese che ricostruiscono il giornalismo nei nuovi contesti mediatici, sviluppano nuovi modelli di business per sostenerlo, convincono il pubblico che ritiene doveroso mantenere vivo un dibattito basato sui fatti.
Ci può essere anche una quarta prospettiva, rilanciata dall’avvento dell’intelligenza artificiale, che si potrebbe definire “tecnofila” e che si può riassumere così: la tecnologia è in grado di rispondere alle esigenze della società in modo efficiente e sempre più preciso sulla base della quantità oggettivamente immensa di dati che esistono in rete e che possono essere elaborati da sistemi pensati per produrre informazione obiettiva, personalizzata, utile e affidabile. Il giornalismo in questo contesto si deve adattare, come qualsiasi altra attività, sapendo che prima o poi potrebbe essere sostituito dal funzionamento delle macchine.
Una quinta prospettiva, “ecologista”, è piuttosto orientata a riconoscere come il ruolo del giornalismo possa evolvere nei nuovi ecosistemi mediatici attraverso il complesso insieme di relazioni che collegano le persone, le macchine e l’ambiente. In questo contesto, si assume che l’infodiversità – intesa sia come pluralismo di approcci che come pluralità di piattaforme – sia una garanzia di qualità dell’informazione e adattabilità della società alle trasformazioni storiche. In questa prospettiva una qualche forma di giornalismo è destinata a fiorire mentre altre forme più adatte a contesti mediatici radicati nel passato sono probabilmente destinate a modificarsi o sparire.
Si può assumere che nelle prime quattro prospettive, le chances del giornalismo consistono in una progettualità che contemporaneamente lavori sulla produzione di informazione di grande valore dal punto di vista metodologico e di grande fruibilità dal punto di vista delle piattaforme di distribuzione, in modo tale da definire una forte identità di questo genere di servizio. A questo, nell’ultimo scenario, si aggiunge una consapevolezza: una molteplicità di esperimenti e azioni deve fiorire perché si sposti l’equilibrio nell’ecosistema mediatico generando uno spazio maggiore per il giornalismo. Quindi anche le iniziative di supporto, i finanziamenti a startup, a imprese educative, a modelli di business innovativi, all’uso di tecnologie avanzate, saranno importanti per la riuscita della strategia.
Si tratta peraltro di una strategia che ha alleati strutturali in mondi che si riferiscono a loro volta alla qualità della conoscenza. Le università con la loro terza missione, i musei, le biblioteche, gli archivi, le stesse imprese e persino le pubbliche amministrazioni, hanno tutto l’interesse che la rilevanza del loro lavoro sia riconoscibile anche grazie alla crescita di uno spazio più ampio, nella mediasfera, per la conoscenza di qualità. Se ne deduce che, se queste istituzioni penseranno di difendere la propria rilevanza soltanto con operazioni di propaganda, resteranno con poche risorse e poco impatto. Se penseranno a una conoscenza come bene comune, prodotta con un metodo di valore, perché avvantaggia tutti, troveranno anche un mondo più grande nel quale sostenersi.
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[1] Nic Newman and Federica Cherubini, Journalism and Technology Trends and Predictions 2025, Digital News Project 2025, Reuters Institute)
[2] PWC, Global Media and Entertainment Outlook 2016-2020, Newspapers & Magazines , June2016
[3] https://finance.yahoo.com/quote/GOOGL/financials/
[4] Nic Newman and Federica Cherubini, Journalism and Technology Trends and Predictions 2025, Digital News Project 2025, Reuters Institute)
[5] Meta Blog, Sharing Our Concerns With Canada’s Online News Act, Marc Dinsdale, October 21, 2022-
[6] Nic Newman, Reuters Institute for the Study of Journalism , Digital News Report 2024, Overview and key findings
[7] Walter Quattrociocchi e Antonella Vicini, Polarizzazioni. Informazioni, opinioni e altri demoni nell’infosfera, FrancoAngeli 2023
[8] Simon Kemp, Digital 2018 Global Overview, Data Reportal, January 30th 2018
[9] Digital 2024 Italy https://wearesocial.com/
[10] Nic Newman, Reuters Institute for the Study of Journalism , Digital News Report 2024, Overview and key findings)
[11] Digital 2024 Italy https://wearesocial.com/
[12] Argomenti affrontati criticamente da Francesco Costa nell’introduzione a Ben Smith, Traffic. La corsa ai clic e la traformazione del giornalismo contemporaneo, Altrecose Iperborea 2024
LUCA DE BIASE
Luca De Biase, giornalista, è stato fin dalla fondazione e fino al 2011 caporedattore dell’inserto del giovedì (Nòva 24) del quotidiano Il Sole 24 ore, dedicato ai temi della ricerca e dell’innovazione; è stato responsabile di Nòva24Review, strumento bimestrale di approfondimento oggi non più pubblicato, e promotore di Nòva100, un progetto di aggregazione di più blog indipendenti. Ha fondato e diretto il periodico per tablet La Vita Nòva che ha ricevuto numerosi premi internazionali, tra i quali Moebius 2011, The Lovie Awards 2011, M20, Spd, iTunes Rewind 2011. Dal luglio del 2013 è stato richiamato alla guida di Nòva.
È membro della Commissione sulle garanzie, i diritti e i doveri per l’uso di internet, alla Camera dei deputati. È membro del comitato scientifico per l’Agenda digitale dell’Emilia-Romagna. È stato membro dell’unità di missione per la Presidenza del Consiglio sull’Agenda Digitale italiana nel 2013-2014 e nel 2012 ha partecipato ad una task force del Ministero italiano per lo Sviluppo economico dedicata a migliorare l’ecosistema delle startup innovative
Nel 2016 la Media Ecology Association gli ha assegnato il The James W. Carey Award for Outstanding Media Ecology Journalism 2016 MEA Awards. Ha vinto nel 2007, insieme a Beppe Grillo, la VII edizione del Premio Cultura di Rete.
È membro del Consiglio di amministrazione della Fondazione Golinelli di Bologna. Fa parte del Gruppo Etica e Finanza.
Insegna presso Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM. È membro dell’Harmonic innovation Group
Scenari e prospettive
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