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Ordine dei Giornalisti - Consiglio Nazionale
01/05/2024
Informazione online, giovani e comunicazione sui social media
Giovanna Cosenza
Docente di Filosofia e teoria dei linguaggi – Università di Bologna
Il concetto di generazione e i suoi problemi
Osservare con attenzione e costanza i comportamenti delle generazioni più giovani nei confronti dell’informazione online, senza mai cadere o nel paternalismo, da un lato, o nello snobismo del “dove andremo a finire”, dall’altro, non è necessario solo quando una testata giornalistica vuole rivolgersi (anche) a loro, come spesso si pensa, ma è utile per parlare a tutte le fasce di età. Come vedremo, infatti, in un mercato mutevole come quello digitale, le tendenze giovanili spesso anticipano il futuro, nel bene e nel male, e per questo sono un serbatoio prezioso di informazioni e idee, che può non solo alimentare la creatività, ma prevenire crisi e problemi. I comportamenti giovanili nei confronti dell’informazione possono dunque offrire spunti e idee utili per cercare di risolvere alcuni problemi del giornalismo contemporaneo, in Italia e altrove. Fra l’altro, per una testata giornalistica lungimirante, comunicare con le nuove generazioni è fondamentale anche come strategia di lungo periodo, perché fidelizzare un segmento di pubblico fin dalle età più precoci – durante l’università e, prima ancora, negli ultimi anni delle scuole secondarie di secondo grado – significa anche, se non educarlo, almeno indirizzarlo verso buone abitudini di lettura che possano durare nel tempo.
Detto questo, occorre prendere le distanze dalla tendenza a sopravvalutare sia il concetto di generazione, sia il ruolo che il “fattore età” svolge nelle abitudini di consumo online dell’informazione giornalistica. Attenzione: non sto dicendo che la componente generazionale non sia rilevante, dico che spesso è sovrastimata. Anche quando poi si corregge il tiro, sottolineando il ruolo, nel consumo online di informazione, di molti altri fattori sociodemografici oltre all’età, come il genere sessuale, l’area geografica, il titolo di studio, il reddito, e così via, di fatto poi si continua a usare in modo rigido il concetto di generazione, da cui invece, come vedremo, la ricerca sociale più avveduta prende le distanze.
Ribadisco: non sto dicendo che non ci sia, da parte del giornalismo contemporaneo, in Italia e altrove, anche una certa dose di incapacità nel sintonizzarsi con le abitudini di lettura e di consumo online dell’informazione da parte delle nuove generazioni. Dico piuttosto che le nuove abitudini non sono necessariamente connesse alle fasce di pubblico più giovani. E dico pure che, dato il progressivo invecchiamento della popolazione italiana, non è nemmeno detto che il pubblico più giovane sia quello più interessante, visto che non solo ha meno denaro da spendere, ma – banalmente – è sempre meno numeroso.
La tendenza a sopravvalutare l’attenzione per le nuove generazioni è ricorrente quando si parla di digitale, reti e social media, non solo in ambito giornalistico, ma in diversi settori delle scienze sociali, del marketing e della comunicazione contemporanea. È infatti da quando il consulente e formatore statunitense Marc Prensky ha introdotto la distinzione fra “nativi” e “migranti” digitali (Prensky 2001), che in Italia, come in altri Paesi con scarsa cultura digitale, si tende ad associare il digitale alle fasce più giovani della popolazione, come se queste fossero spontaneamente – proprio perché “native” – più capaci delle persone adulte e anziane di usare le tecnologie digitali in modo consapevole, efficace ed efficiente.
Tuttavia, già da diversi anni lo stesso Prensky (2012) ha rivisto e corretto la sua posizione iniziale, parlando piuttosto di “saggezza digitale” e intendendo questa come una competenza trasversale, rispetto non solo alle generazioni, ma a molti altri fattori sociodemografici. Inoltre, sono molte le indagini empiriche, anche nel nostro Paese, che dimostrano quanto sia controproducente associare gli usi più competenti, efficaci ed efficienti del digitale alle nuove generazioni. Negli ultimi anni, ad esempio, diverse elaborazioni della Fondazione Openpolis, su dati Eurostat, hanno ripetutamente evidenziato che i nostri ragazzi e le nostre ragazze fra i 16 e i 25 anni sono molto meno abili nell’uso delle tecnologie digitali della media dei loro coetanei in Europa[1].
Per quel che riguarda poi il concetto di generazione, questo è messo in discussione da diversi studi nel campo delle scienze sociali (cfr. Duffy 2021). Mi limito a segnalare la lettera aperta che un gruppo di demografi e scienziati sociali statunitensi ha rivolto nel maggio 2021 al Pew Research Center, il noto istituto americano di ricerche statistiche e sondaggi, una lettera che al momento conta quasi 400 firme[2]. Secondo gli studiosi e le studiose cha l’hanno sottoscritta, espressioni come “generazione X”, “millennial” e “generazione Z”, molto diffuse nel giornalismo, nel marketing e nel senso comune, non hanno alcun fondamento nella realtà sociale, ma confermano stereotipi e producono inesattezze e inutili generalizzazioni, deviando l’attenzione da fattori più significativi e influenti nella comprensione dei fenomeni sociali.
Come utenti della ricerca del Pew Research Center, e come esperti ed esperte che lavorano in ambiti vicini, esortiamo il Pew Research Center a fare la cosa giusta, contribuendo a mettere fine all’uso di etichette e nomi di “generazioni” arbitrari e fuorvianti (mia traduzione).
Fatte queste premesse, propongo ora una riflessione su alcuni dati del “Digital News Report 2023” del Reuters Institute for the Study of Journalism dell’Università di Oxford[3], sia perché contengono informazioni importanti su come le fasce più giovani della popolazione in 46 Paesi del mondo, fra cui il nostro, consumano informazione giornalistica online, sia perché mettono in relazione queste informazioni con altri fattori sociodemografici e con dati relativi a tutte le generazioni. Il Reuters Institute ovviamente, come molti istituti di ricerca, non prescinde dalla suddivisione della popolazione in fasce di età, ma ci permette di inquadrarla in una prospettiva più ampia.
Ed è proprio con questo sguardo – ampio, ma non generico perché fondato su numeri – che andrà letta la mia analisi dei tratti linguistico-semiotici fondamentali che contraddistinguono la comunicazione sui social media (cfr. § 6), un’analisi che può essere tanto più utile quanto più il giornalismo odierno ha a che fare, come confermano i dati che vedremo, con una fruizione online dell’informazione sempre più sfiduciata, frammentata e dominata dalle piattaforme social. Ma queste tendenze riguardano ormai da diversi anni tutte le generazioni: giovani e meno giovani.
Come si accede alle news online
È almeno dal 2018 che il Reuters Institute mostra come ogni anno in tutto il mondo ci si informi sempre meno accedendo direttamente alle app e ai siti web delle testate giornalistiche e sempre di più usando i social media. La svolta è avvenuta fra il 2020 e il 2021: è stato in quel periodo che l’uso dei social per accedere all’informazione ha cominciato a superare l’accesso diretto alle news. La ricerca mostra che sono soprattutto le persone fra i 18 e i 24 anni quelle più inclini a usare i social per informarsi.
Anche nelle preferenze e nei modi d’uso, i cambiamenti più drastici sono partiti dai più giovani: dal 2017 al 2023 l’interesse per Facebook è diminuito più rapidamente in chi aveva meno di 25 anni, che gli ha preferito Instagram, Snapchat e soprattutto TikTok: quest’ultimo, in quella fascia di età, ha fatto numeri analoghi a Facebook[4].
Vale la pena sottolineare che, negli stessi anni, è cresciuto molto l’uso di YouTube come fonte di notizie, malgrado di questo si parli poco, ed è cresciuto per tutte le generazioni, non solo per i più giovani. Inoltre, Instagram e TikTok, di cui invece si parla spesso, sono di fatto cresciuti entrambi per tutte le generazioni, non solo per i giovani: è solo l’uso di TikTok che resta ancora più forte fra i giovani, in Italia e nel mondo.
Tutto ciò indica, nel complesso, quanto sia aumentata e continui ad aumentare la tendenza a fruire le notizie su audiovisivi. Per la verità, la centralità degli audiovisivi non riguarda solo il mondo dell’informazione, ma qualunque contenuto online, ed è nettissima ormai da molti anni: si veda il “Visual Networking Index” della multinazionale Cisco, che già nel 2017 riferiva che in quell’anno lo streaming video era stato responsabile del 59% del traffico dati globale e prevedeva che, entro il 2022, si sarebbe arrivati a un 79% di dati video (oggi di fatto siamo andati oltre)[5].
Per quel che riguarda infine i contenuti delle news che vanno per la maggiore sui social, secondo il Reuters Institute (2023), mentre su Twitter gli utenti fanno più attenzione ad argomenti di politica e di business, su TikTok e Instagram – ma anche su Facebook – prevalgono il gossip e la satira, o in ogni caso i contenuti più leggeri e divertenti. E anche questo vale per tutti, non solo per i più giovani.
Che notizie vorrebbero le persone?
Questi dati confermano una tendenza che dura da tempo e che ha motivato, ormai diversi anni fa, la nascita di alcune importanti iniziative giornalistiche online, le quali hanno cercato di sfruttare intrattenimento, gossip e contenuti leggeri o addirittura trash, per sostenere l’informazione e le inchieste più serie e di qualità. Penso ovviamente a BuzzFeed News, Vice e Huffington Post (oggi HuffPost), il cui modello economico per alcuni anni è sembrato funzionare.
Oggi invece, come sappiamo, queste testate stanno attraversando una crisi pesantissima. La sezione News di BuzzFeed, creata nel 2011 con l’obiettivo ambizioso di pubblicare “almeno uno scoop al giorno”, ha chiuso nell’aprile 2023[6]. Come non bastasse, nel febbraio 2024, l’intero BuzzFeed (che esiste dal 2006) ha annunciato il licenziamento di 160 persone[7]. Per quel che riguarda HuffPost, negli ultimi anni le edizioni non statunitensi sono state quasi tutte cedute o chiuse (quella italiana è stata rilevata dal gruppo GEDI). Peggio ancora sono andate le cose per Vice che, sempre nel febbraio 2024, ha annunciato la fine delle attività del sito[8]. Vice era nato in Canada addirittura negli anni Novanta ed era diventato presto un caso: rivolto a un pubblico soprattutto giovane, proponeva un giornalismo aggressivo, toccando argomenti consumistici, modaioli e non convenzionali, con toni spesso provocatori, linguaggio scurrile e immagini anche violente o a sfondo sessuale.
Cosa insegna la parabola di queste testate? Propongo questa sintesi: la commistione fra il serio e il faceto non paga, se il faceto è interpretato in modo estremistico. La sempre più spiccata frammentazione dei social e la stretta da parte delle piattaforme digitali – soprattutto Facebook – hanno infatti tolto forza alle offerte trasversali che combinavano “alto” e “basso”, ovvero informazione e intrattenimento, interpretando quest’ultimo nei modi più provocatori, con esagerazioni fra gossip e trash.
Uno spunto per capire le ragioni di questa parabola viene dal Reuters Institute (2023), e in particolare dai dati che riguardano i desideri dei campioni indagati: che tipo di notizie vorrebbero sui social media? Ebbene, dalla ricerca emerge che, a tutte le età e in tutti i Paesi rilevati nel 2023, la maggior parte delle persone vorrebbe leggere notizie che abbiano queste caratteristiche, dalla più richiesta alla meno desiderata:
Il grafico che segue (Figura 1) è tratto dalla p. 15 del “Report” e riguarda in particolare il Regno Unito, gli USA e la Germania, ma la tendenza, come sottolinea la ricerca, è ben più generalizzata.
Questa lista da sola sarebbe sufficiente a far capire, a mio avviso, la crisi del modello giornalistico di cui sopra: innanzi tutto, il desiderio di gossip e intrattenimento, inutilmente inseguito da quel tipo di giornalismo, in realtà si colloca all’ultimo posto nelle preferenze per le news (anche se prevale nell’uso più ampio dei social media, come abbiamo visto nel § 2). Ma è importante notare anche, da un lato, la saturazione per i toni aggressivi, dall’altro, il bisogno di affidabilità complessiva, che sta al primo posto fra i desiderata. Ebbene, se un’offerta giornalistica mescola in modo estremistico “alto” e “basso” (le news più serie al trash), la coerenza della testata diventa molto problematica, ma che affidabilità può mai avere un soggetto incoerente?
La sfiducia generalizzata e la News Selective Avoidance
La mancanza di fiducia implicita nel desiderio di contenuti “più affidabili” riemerge altre volte nell’indagine del Reuters Institute (2023). Fra le varie domande, ce n’erano ad esempio tre che riguardavano la selezione delle notizie e chiedevano più o meno questo: (1) quanto di fidi di una selezione basata su algoritmi che tengono conto del tuo consumo di notizie passato; (2) quanto di fidi di una selezione basata su algoritmi che tengono conto del consumo di notizie da parte dei tuoi amici e seguaci; (3) quanto di fidi di una selezione basata su scelte umane, fatte da giornalisti e giornaliste.
Le persone di tutti i campioni nazionali hanno espresso scetticismo su tutti i modi di selezionare le notizie. Solo il 19% di loro ha detto di fidarsi degli algoritmi basati sul consumo dei propri amici e seguaci, mentre il 42% ha risposto di non fidarsi per niente. È andata meglio con la selezione automatica basata sul proprio consumo passato, perché in questo caso la fiducia è arrivata al 30%, mentre una percentuale analoga ha dichiarato di non fidarsi nemmeno di questa selezione. Notevole, infine, è che la percentuale di coloro che hanno detto di fidarsi degli algoritmi sia stata addirittura superiore a quella di coloro che hanno dichiarato di preferire la selezione umana, perché questa fiducia l’ha espressa solo il 27% delle persone intervistate.
Insomma, alla sfiducia nei confronti dei contenuti delle notizie, che abbiamo visto nel § 3, si aggiunge quella che riguarda la loro selezione, ed è una sfiducia che non fa molta differenza fra esseri umani e macchine, anzi: tendenzialmente ci si fida un po’ più delle macchine. Anche in questo caso, il fenomeno c’è da anni ed è in crescita. È ciò che Fletcher e Nielsen (2018) avevano chiamato “scetticismo generalizzato”, dove la parola “generalizzato” si riferiva al fatto che le opinioni sui due modi di selezionare le notizie, umano e informatico, sono strettamente correlate. In breve, oggi come allora, chi si fida della selezione giornalistica si fida anche di quella algoritmica, chi non si fida non si fida in generale.
Infine, anche in tema di scetticismo le giovani generazioni sono trainanti. Per fare solo due esempi, dalla ricerca del Reuters Institute emerge che, dal 2016 al 2023, nel Regno Unito il crollo di fiducia nella selezione di notizie (umana e informatica) ha prodotto tra gli under 35 un misero 19% di giovani fiduciosi, e negli Usa un ancor più misero 13%.
La News Selective Avoidance è infine la tendenza a evitare in modo mirato le notizie, e a farlo spesso o addirittura sempre. La tendenza, stando al Reuters Institute (2023), è causata da diversi fattori, soprattutto emotivi e non riguarda solo la rete, ma tutti i media, dai più tradizionali ai più recenti: TV, radio, stampa, siti web e social media. A differenza di quanto era accaduto durante la pandemia, che aveva prodotto una crescita generale di attenzione per le news, né la guerra in Ucraina né la conseguente crisi economica hanno portato a un maggior consumo di notizie, anzi: fra il 2022 e il 2023 è accaduto il contrario.
Infatti, nel 2023 ha dichiarato di evitare intenzionalmente le notizie il 36% delle persone intervistate: 7 punti percentuali in più rispetto al 2017. Inoltre, a tenersene più lontane sono state le donne, che nel 2023 erano il 39%, rispetto agli uomini, che erano il 33%, e la tendenza è stata ancora più drastica tra i più giovani. Ma le motivazioni più spesso addotte sono state simili a tutte le età: troppa negatività, senso di sopraffazione, contenuti considerati troppo ripetuti e allo stesso tempo troppo lontani dai propri interessi.
I social media e la retorica del peer to peer
In sintesi, dai dati appena visti emergono questi punti essenziali: (1) centralità dei social media e degli audiovisivi nella fruizione di notizie online; (2) scetticismo nei confronti sia dei contenuti delle notizie reperibili sui social media, sia della loro selezione da parte di algoritmi e redazioni; (3) trasversalità di queste tendenze rispetto alle variabili sociodemografiche, e in particolare rispetto all’età delle persone intervistate, anche se ovviamente i giovani svolgono sempre un ruolo trainante. È in questo quadro che va dunque compresa l’analisi dei tratti linguistico-semiotici della comunicazione sui social media che sto per proporre, con i suggerimenti che ne derivano.
Non è possibile rendere conto in generale delle caratteristiche, delle regole e nemmeno delle tendenze che contraddistinguono la comunicazione su Instagram, TikTok, YouTube, Twitch e così via, perché troppe sono le variabili non solo tecnologiche, ma sociali, culturali, linguistiche, di mercato. Su Instagram, ad esempio, gli ultimi dati aziendali del 2023 parlano di circa 30 milioni di utenti mensili attivi in Italia[9]: in questo mare magnum le aziende, le istituzioni, le organizzazioni, i soggetti politici, le testate giornalistiche e, sempre più spesso, anche gli individui che diventano personal brand o influencer, svolgono le più disparate attività, che non possono certo essere condensate in proprietà o regole generali, senza cadere in banalizzazioni inaccettabili. La stessa cosa si può dire, mutatis mutandis, di Facebook, YouTube, TikTok e di qualunque piattaforma di comunicazione online.
È vero però che alcune caratteristiche strutturali della comunicazione sui social media sono costitutive, nel senso che non solo li qualificano tutti, pur con le inevitabili differenze tecnologiche, sociali, culturali, di mercato, ma li accompagnano fin dalle origini e sono rimaste costanti nel tempo. È di queste che ha senso parlare ed è ciò che cercherò di fare.
La relazione comunicativa che tipicamente si associa i social media è quella peer to peer. Con questa espressione non intendo il peer to peer informatico, anche se il concetto viene da lì[10], ma una relazione in cui emittente e destinatario sono alla pari, nel senso che possono continuamente scambiarsi di ruolo. In effetti, su Internet gli scambi di questo tipo esistono da sempre, ad esempio grazie alle mail (la cui tecnologia risale al 1971), ai forum di discussione (nati nel 1979), alle chat (nate nel 1988). Ebbene, dalla metà degli anni Duemila, le tecnologie che hanno permesso questi scambi “alla pari” (in tutte le direzioni: uno-a-uno, uno-a-molti, molti-a-uno, molti-a-molti) si sono moltiplicate a dismisura: anzitutto i blog (il primo negli Usa è del 1997), poi Facebook (2004), quindi YouTube (2005) e Twitter (2006), fino ai più recenti Instagram (2010), acquisito da Facebook-Meta nel 2012, e infine TikTok, nato nel 2014 come musical.ly, acquistato dalla cinese ByteDance nel 2017 e trasformato in TikTok nel 2018.
Negli ultimi anni, non solo le relazioni “alla pari” sono diventate più numerose, ma vengono sempre più spesso valorizzate, indipendentemente dall’effettiva pariteticità – economica, organizzativa, di competenze – fra i soggetti che comunicano. Insomma, negli ultimi anni sui social media e nei discorsi mainstream che li riguardano si è costruita una sempre più robusta e pervasiva retorica del peer to peer, secondo la quale sui social saremmo tutti alla pari: aziende e consumatori, istituzioni e cittadini, star dell’intrattenimento e spettatori, redazioni giornalistiche e lettori.
Propongo di individuare nella copertina con cui il magazine Time uscì nell’ultima settimana di dicembre 2006 l’apoteosi di questa retorica (Figura 2):
“La persona dell’anno sei tu”, diceva Time alla fine del 2006, piazzando un grande “You” al centro del monitor di un Pc, con sotto la frase “Sì, proprio tu. Tu controlli l’età dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo”. Il mondo a cui Time faceva riferimento era, evidentemente, quello dischiuso dal monitor con la scritta “You”, un monitor che coincideva con l’interfaccia tipica degli applicativi per la riproduzione video (YouTube in primis), con i tasti di play, scorrimento, volume, zoom e così via.
Il motivo per cui vedo in questa copertina l’apice di una certa retorica è che di fatto, allo sbandierato potere delle persone qualunque – che addirittura sarebbero in grado di “controllare la Information Age” – non corrispondeva allora, e men che meno corrisponde oggi, nessun potere, né tecnologico, né economico-organizzativo, né di competenze. Al contrario, fra le multinazionali che possiedono i social media e noi che affidiamo ai loro server i nostri dati, spesso con scarsa avvedutezza, ci sono evidenti e giganti asimmetrie.
Una volta messi in guardia da ogni generalizzazione e banalizzazione, da un lato, e da una certa retorica, dall’altro, possiamo riconoscere nella relazione peer to peer lo stile comunicativo tipico dei social media. Per focalizzare i principali tratti linguistici e semiotici che lo caratterizzano, è utile riprendere un altro concetto ricorrente sui social e nei discorsi che li riguardano: la conversazione.
Anche questo non è affatto nuovo, ma risale al 1999, e in particolare alle prime sei tesi del Cluetrain Manifesto che uscì quell’anno: erano 95 in tutto (come quelle di Martin Lutero) e furono scritte da un gruppo di consulenti e manager statunitensi[11], che già nel 1999 invitavano le imprese a costruire la loro presenza sul web cambiando radicalmente sia la loro idea di mercato, sia il linguaggio che usavano, in rete e fuori, perché troppo spesso intriso di burocratese, aziendalese e gergo del marketing. Queste erano le prime sei tesi del Cluetrain Manifesto:
Insomma, dire che i social media e gli user generated content hanno moltiplicato le relazioni simmetriche peer to peer è un po’ come dire che oggi in rete si conversa, molto più di una volta, con la “voce umana” di cui il Cluetrain Manifesto parlava già nel 1999. Detto ancora in altri termini, sui social tutte le comunicazioni, non solo quelle fra individui, ma anche quelle fra le aziende, le istituzioni, le testate giornalistiche e i loro consumatori, elettori e lettori, tendono a simulare i tratti linguistico-semiotici tipici del dialogo faccia a faccia: la situazione in cui ci sono due persone in carne e ossa che si parlano, e queste due persone hanno ruoli paritetici e simmetrici l’una rispetto all’altra.
Ecco i principali di questi tratti:
Torna utile a questo punto una classificazione che in semiotica è stata introdotta da Marmo (2003), che ho ripreso in Cosenza (2014) e che uso spesso per progettare il tono di voce di un’azienda (istituzione, soggetto politico, personal brand), sul web e sui social media. Questa classificazione individua cinque distanze fondamentali nella costruzione di una relazione online, dalla maggiore lontananza alla maggiore vicinanza possibile. Eccole:
In sintesi, per costruire relazioni sui social media, occorre evitare il più possibile la distanza indefinita e quella istituzionale, mentre bisogna alternare sapientemente la distanza pedagogica, l’ammiccamento e la complicità, tutte strategie relazionali in cui il soggetto emittente si rivolge al suo pubblico nel modo più diretto possibile, o dandogli del “tu”, o coinvolgendolo in un “noi” inclusivo, o regalandogli l’uso della prima persona. Tornando alla copertina di Time – ripensata stavolta in positivo come rappresentativa dello stile dei social media invece che della retorica del peer to peer – è chiaro che in italiano lo “You” può anche essere un “lei” o un “voi”, purché continui a riprodurre una relazione personalizzata, immediata e amichevole, cioè la “voce umana” di una conversazione faccia a faccia.
La comunicazione alla pari negli audiovisivi
Ma lo “You” può anche essere espresso con immagini, ferme o in movimento. Arriviamo dunque agli audiovisivi, che sono il mezzo di comunicazione in assoluto più diffuso online, in formato breve (Instagram e, almeno per ora, TikTok) o lungo (YouTube), e questo vale per l’informazione giornalistica come per moltissimi altri contenuti. Nel caso degli audiovisivi, l’effetto di comunicazione “alla pari” si costruisce con questi ingredienti principali:
Personalizzazione. L’azienda, l’organizzazione, la testata giornalistica è rappresentata da qualcuno che letteralmente “ci mette la faccia”, mostrando il suo volto in foto (Instagram), ma soprattutto in video (YouTube, Instagram, TikTok), e parlando in prima persona. Infatti, come tutti i dati confermano, su YouTube, Instagram e TikTok le persone (giovani e meno giovani) preferiscono seguire, invece degli account aziendali e istituzionali, considerati troppo lontani e astratti, gli individui in prima persona, che possono essere: o influencer nativi/e di quelle piattaforme, o personaggi noti (le cosiddette celebrities), che provengono da altri media: cinema, televisione, musica, videogiochi, moda. Anche nel mondo dell’informazione, insomma, è più probabile che sui social ottengano seguito – più degli account delle testate giornalistiche – quelli di singoli giornalisti e giornaliste, specie se sono volti noti della TV e se praticano quello che da anni gli studi sulla televisione chiamano infotainment, una parola che combina information e entertainment[12].
Tecniche di fotografia e videoripresa. Servono a sottolineare e valorizzare la relazione di vicinanza e complicità fra la persona che “ci mette la faccia” nel rappresentare l’azienda (l’organizzazione, la testata giornalistica) e la sua target audience: sguardo in camera, espressioni facciali e gestualità sempre adeguate all’argomento di cui parla, vicinanza del volto all’obiettivo, postura del corpo e gesti protesi sempre verso l’obiettivo, e così via.
Vicinanza di chi parla alla sua target audience. L’effetto di vicinanza nasce soprattutto dalle capacità linguistico-semiotiche di chi parla in video, capacità che gli/le permettono di applicare, alternare e dosare al meglio le strategie di distanza pedagogica, ammiccamento e complicità di cui ho detto nel § 6. Un buon modello può essere, anche per i social media, il migliore infotainment televisivo, quello cioè più equilibrato, che non arriva agli eccessi dell’infomotion, cioè non fa appello alle emozioni più estreme, positive o negative, come fa la “TV del dolore”, per intenderci. Fin dagli anni Novanta, infatti, in Italia e in tutte le televisioni occidentali l’infotainment televisivo più equilibrato si avvale delle capacità che alcuni personaggi celebri hanno di “bucare il video”, per trainare giornalismo di qualità verso numeri elevati di audience (Mazzoleni, Sfardini 2009). Ed è un modello che funziona anche sui social.
Ma l’effetto di vicinanza può nascere anche dal fatto che la persona che parla in video per la testata giornalistica rappresenta la sua target audience per età, linguaggio, modi di fare, formazione, stile di vita, professione, ambiente. Su TikTok, fra l’altro, è più alta rispetto a YouTube e Instagram la percentuale di coloro che considerano una fonte di informazione attendibile – in tutti i campi, dal make up alle recensioni di romanzi – le persone comuni, non solo le celebrità. E questo vale anche per il giornalismo, come mostrano i dati del Reuters Institute (2023).
Da sempre su tutti i social, da YouTube a Instagram e TikTok, fino a quelli più di nicchia, e in tutti i settori, dalla moda all’educazione, dal fitness alla divulgazione scientifica, dalla cosmetica alla musica colta, si incontrano storie di “persone comuni” che, dal nulla o quasi, arrivano a muovere grandi numeri di follower, rappresentando i desideri e bisogni del loro pubblico, parlando il suo linguaggio, manifestando gusti, stili e abitudini simili a quelli di chi li segue: persone anziane che mostrano ad altre persone anziane come ci si allena a una certa età, appassionati di viaggi che raccontano i loro percorsi turistici ispirando altri a fare altrettanto, studentesse universitarie che danno ad altri universitari consigli su come preparare gli esami, teenager che commentano libri di narrativa invogliando altri teenager a leggerli, e così via. Anche il giornalismo può fare altrettanto.
Il caso di Kelsey Russell, una ventitreenne che studia alla Columbia University di New York, illustra molto bene cosa vuol dire rappresentare il proprio pubblico nel campo dell’informazione online. Su TikTok Russell legge i quotidiani di carta (soprattutto il New York Times) e li commenta per un pubblico giovane e lontano dalla carta. Ha attratto l’attenzione di tutti i media statunitensi dopo che Embedded, una newsletter molto seguita[13], e il magazine digitale Slate ne hanno parlato nel settembre 2023[14]. I suoi video si differenziano dai tanti che circolano su TikTok, perché non hanno né montaggio né musiche particolari e sono più lunghi degli standard, cioè durano anche sei o sette minuti. Ciò nonostante, ottengono decine e a volte centinaia di migliaia di visualizzazioni.
La semplicità e la spontaneità con cui Kelsey Russell ammette la sua ignoranza su molti argomenti e il modo in cui guida in un territorio nuovo i suoi follower, ma anche sé stessa insieme a loro, sono un buon esempio non solo di informazione online capace di attrarre i giovani, ma più in generale di comunicazione alla pari, che le testate giornalistiche dovrebbero studiare con attenzione, per applicarla, mutatis mutandis, anche ad altre target audience, differenziate, profilate e ben mirate non solo per fasce di età, ma per interessi, estrazioni sociali, localizzazioni geografiche, ambiti culturali, stili di vita.
GIOVANNA COSENZA
Laureata in Filosofia, ha conseguito il dottorato in Semiotica con Umberto Eco all’Università di Bologna, dove oggi è Professoressa ordinaria in Filosofia e Teoria dei linguaggi e fa ricerca nel campo dei media digitali, della comunicazione politica e di quella pubblicitaria. Dal 2005 dirige il Master in Comunicazione, Management e Nuovi Media, e dal 2018 il Corso di laurea in Comunicazione e Digital Media, entrambi un doppio titolo dell’Università di Bologna e di San Marino. Come freelance, svolge attività di consulenza e formazione nell’area della comunicazione strategica per aziende, centri di formazione, enti pubblici.
Ha scritto numerosi articoli, pubblicati in volumi collettivi e su riviste nazionali e internazionali. I suoi libri più recenti sono Cerchi di capire, prof. Un dialogo tra generazioni (Enrico Damiani, 2020), Semiotica e comunicazione politica (Laterza, 2018).
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[1] Openpolis è una fondazione indipendente e senza scopo di lucro che promuove progetti per l’accesso alle informazioni pubbliche, la trasparenza e la partecipazione democratica. Si veda ad esempio questa elaborazione: https://www.openpolis.it/numeri/italia-terzultima-in-ue-per-competenze-digitali-dei-piu-giovani/.
[2] La petizione è reperibile all’indirizzo: https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSecsM1JavYMlNI-XlKDYngFKsEFBGFs_imv7R5KO8e15NYeCg/viewform.
[3] Il “Digital News Report 2023” è un’indagine sul consumo delle notizie in 46 paesi al mondo, pubblicata nel giugno 2023. Proviene dall’elaborazione dei risultati della somministrazione di un questionario, distribuito online fra febbraio e marzo 2023, a un campione non probabilistico di circa 93.000 persone (poco più di 2000 per ogni nazione), organizzato per età, genere e paese.
[4] Per completezza, il Reuters Institute aggiunge che, sotto i 25 anni, si usano anche social come Discord (15%) e Twitch (12%).
[5] L’indagine è reperibile all’indirizzo: https://www.cisco.com/c/en/us/solutions/service-provider/visual-networking-index-vni/index.html.
[6] Questo l’annuncio su Twitter il 20 aprile 2023: https://twitter.com/BenMullin/status/1649067421766938624.
[7] Qui la notizia del 21 febbraio 2024 su Variety: https://variety.com/2024/digital/news/buzzfeed-sells-complex-ntwrk-layoffs-1235918498/.
[8] Qui l’annuncio del 22 febbraio 2024 sul New York Times: https://www.nytimes.com/2024/02/22/business/vice-media-layoffs.html.
[9] Si veda l’ultima elaborazione di Vincenzo Cosenza, che risale all’agosto 2023: https://vincos.it/2023/08/05/social-media-in-italia-utenti-e-tempo-di-utilizzo-2022/.
[10] In informatica l’architettura peer to peer (p2p) è quella di una rete di computer i cui singoli nodi non svolgono il ruolo fisso di client o server (come nell’architettura client/server), ma sono paritari (peer, appunto), cioè possono fungere sia da server (nodi che offrono informazioni o servizi) sia da client (nodi che chiedono informazioni o servizi) per altri nodi della rete. Il peer to peer informatico descrive insomma qualsiasi rete in cui ciascun nodo sia in grado di avviare o completare una transazione.
[11] Il manifesto fu scritto nel 1999 da Rick Levine, Christopher Locke, Doc Searls e David Weinberger e oggi è anche un libro (cfr. Levine, Locke, Searls e Weinberger 2009).
[12] In origine la parola infotainment mescolava due macrogeneri tipici della radio e della televisione. In seguito, con la moltiplicazione e frammentazione dell’offerta televisiva e radiofonica sulle piattaforme online, la parola ha esteso il suo raggio di applicazione. La letteratura sociologica, massmediologica e semiotica che ha studiato i diversi formati e generi dell’infotainment televisivo e la loro evoluzione nel tempo è sterminata. Per brevità, segnalo solo gli italiani Menduni (2008); Mazzoleni, Sfardini (2009).
[13] Qui la notizia che Embedded ha dato il 13 settembre 2023: https://open.substack.com/pub/embedded/p/gen-z-loves-the-newspaper-on-tiktok?utm_campaign=post&utm_medium=web.
[14] Qui la notizia di Slate il 25 settembre 2023: https://slate.com/human-interest/2023/09/media-literacy-print-newspapers-tiktok-influencer-kelsey-russell.html.
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