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La rilevanza dei quotidiani nell’era digitale dell’informazione “incidentale” - Ordine Dei GiornalistiOrdine Dei Giornalisti

Ordine dei Giornalisti - Consiglio Nazionale

La rilevanza dei quotidiani nell’era digitale dell’informazione “incidentale”

13/02/2025

immagine realizzata con IA Midjourney

"LA RILEVANZA"

REPORT 2025
Approfondimenti tematici

La rilevanza dei quotidiani nell’era digitale dell’informazione “incidentale”

Lelio Simi
Giornalista

Introduzione

Per molto tempo ha suscitato grande fascino immaginare il giorno nel quale l’ultimo editore al mondo che realizza ancora il proprio giornale di carta stamperà, per l’ultima volta, delle copie da portare in edicola (gli addetti ai lavori hanno molto fantasticato sulla, ipotetica, data dell’ultima copia stampata dal New York Times).

Nel mondo dell’informazione eravamo tutti convinti che quella fosse la linea di confine che separa un prima e un dopo: il segnale che il digitale aveva definitivamente completato la sua opera e portato all’estinzione l’industria dei quotidiani, almeno per come era stata concepita fino ad allora.

Ci sbagliavamo. Quanto fissare quella ipotetica data, al di là di un mero valore simbolico, è ancora rilevante per la qualità dell’informazione e il futuro dell’industria delle notizie? Il “dopo” è arrivato ormai da un pezzo: in qualche modo possiamo affermare che oggi tutto il giornalismo è digitale perché, ormai, da qualche tempo lo sono le tecnologie che gestiscono i processi produttivi, che si tratti di una pagina da inviare al centro stampa o un articolo da pubblicare online.

Tuttavia, in questo contesto ci sono due elementi controintuitivi che caratterizzano l’industria dei giornali. Il primo è che nonostante il costante e, ormai, irreversibile declino, l’economia degli editori legacy ha ancora al centro i ricavi che derivano dalla carta; perfino il New York Times, che più di qualsiasi altra grande testata ha puntato, già dal 2011, con determinazione sulla conversione verso il digitale, i ricavi della carta pesano comunque ancora intorno al 40% su quelli totali (37% nel terzo trimestre del 2024), una quota parte ancora fondamentale nei conti economici del giornale. E per la maggior parte di tutti gli altri siamo ancora su quote che oscillano tra il 60% e il 70% (con eccezioni che vedono un peso dei ricavi da carta inferiori a queste quote ma anche superiori fino ad oltre il 90%).

In Italia negli ultimi tre anni, come vedremo più nel dettaglio, il tasso di decrescita delle copie vendute si è stabilizzato al -10%, una cifra nettamente superiore a quella del mercato globale dei quotidiani che è intorno al 4-5%[1].

Nel frattempo, alla transizione tra carta e web si è sovrapposta, con problematiche non certo minori, quella tra web e mobile con la sua galassia di app. E oggi una nuova transizione si prospetta, ancora più complessa, con l’ascesa della AI generativa.

Ognuna di queste “transizioni” è ancora in atto, e deve essere gestita per portare la filiera delle notizie nel futuro (che è già iniziato) ma, ed ecco il secondo elemento controintuitivo, il digitale rappresenta, per il giornalismo, una sorta di paradosso, ovvero: seppure i vecchi modelli dell’industria delle notizie, basati su giornale di carta-diffusione fisica-ricavi da pubblicità, siano stati resi obsoleti e gettati in una crisi irreversibile dal digitale, il digitale stesso in tutti questi anni non non ha proposto concretamente modelli editoriali economicamente solidi e duraturi.

Il futuro è digitale ma l’industria delle notizie, a ormai trent’anni dalle prime versioni web dei suoi giornali, non ha trovato qualcosa che anche lontanamente assomigliasse a Netflix, Spotify o Facebook e Google che — con tutte le controindicazioni del caso per i loro concorrenti — hanno comunque trainato il giro di affari complessivo delle altre industrie dei media (quelle dell’intrattenimento e della pubblicità in particolare) verso picchi nei ricavi mai raggiunti prima.

In campo editoriale invece una lunga lista di progetti innovativi non sono stati all’altezza delle sfide del mercato, fallendo nel giro di pochi anni. E più in generale anche nuovi modelli di business come la subscription economy, nonostante la sua crescente rilevanza tra gli editori di giornale ha dovuto, proprio in questi ultimi due anni, essere oggetto di una sostanziale correzione da parte di quelle aziende che ne facevano l’unica voce di ricavo.

È in questo difficile e complesso scenario economico che l’industria delle notizie (e dei quotidiani in particolare) gioca la partita della propria rilevanza nell’ecosistema dei media dominato dalle grandi piattaforme che monopolizzano l’attenzione delle persone e gli investimenti pubblicitari; e dove la cosiddetta economia dei creatori digitali — promossa, controllata e gestita proprio dalle grandi aziende tecnologiche globali — sta ridisegnando, anche da noi in Italia, le modalità con le quali tutti noi riceviamo e consumiamo un qualsiasi tipo di contenuto.

La domanda è: quanto ancora i ricavi da cartaceo saranno capaci di sostenere economicamente il sistema dei grandi quotidiani nel gioco delle molteplici transizioni che si stratificano una sull’altra con diverse tempistiche e necessità di scalabilità economica?

L’obiettivo di questa relazione è quindi quello di cercare di capire, con i dati a disposizione, a che punto siamo di una crisi definita spesso “senza fine” ma che, in realtà, il continuo dimagrimento dei margini di guadagno pone — anno dopo anno — la tenuta economica dell’intero sistema sempre più a rischio di implosione. E quanto tutto questo influisce sulla rilevanza e credibilità della filiera dei quotidiani.

Conclusioni

Di cosa parliamo quando parliamo di rilevanza del giornalismo? Fiducia dei lettori, impatto nel dibattito pubblico, centralità in quello civico e culturale di una comunità, sostenibilità economica. Certo. Però appena cerchiamo di “misurare” questi parametri per quantificarne la reale portata, ci accorgiamo che le metriche che abbiamo sempre usato, per quanto importanti, non sono in grado di raccontarci tutto.

Il digitale ha cambiato tutto, e come abbiamo già messo in evidenza nella prima relazione di questo Osservatorio[2]: la questione di quali metriche utilizzare, della “qualità” dei dati a disposizione, è diventata ancora più fondamentale in uno scenario che muta continuamente sulla spinta di innovazioni tecnologiche che generano nuove dinamiche di mercato, nuovi approcci del pubblico al consumo di notizie. Commetteremmo quindi un grave errore nel continuare a cercare imperterriti, nell’attuale infosfera, il corrispettivo di un numero molto limitato di metriche dell’era analogica meramente “quantitative” trascurando, o addirittura ignorando, quelle “qualitative”.

Ma a questa prima problematica bisogna aggiungere che oggi assistiamo a un nuovo importante cambio di scenario nel digitale. L’ascesa della economia dei creatori, che non può più essere considerata semplicemente  l’ennesima nuova tendenza del web dal carattere transitorio, ci obbliga a prendere atto dei profondi cambiamenti che sta apportando nella frammentazione dell’offerta informativa rimodellando le modalità con le quali le persone ricevono e consumano le notizie ma, anche, la mutazione nelle professioni — non esclusa certo quella giornalistica — innescando anche in questo campo un processo di frammentazione e disaggregazione.

Come abbiamo sottolineato nella relazione dello scorso anno[3]: «è in questo quadro enormemente frammentato — e variamente “professionalizzato” — che oggi devono muoversi i lettori in cerca di notizie e approfondimento: ognuno di loro “conteso” da un’infinità di singole fonti che popolano le maggiori piattaforme digitali, in un ecosistema dell’informazione nel quale i giornali (nel loro complesso e in qualsiasi forma, dal classico sito web ai loro account ufficiali nei social media) non sono che una delle tante componenti.»

C’è infine il rischio che sul digitale le performance meramente quantitative (numero di “mi piace”, visualizzazioni) siano prese come unico e affidabile elemento di rilevanza, anche quando ci troviamo di fronte a contenuti che ottengono ottima visibilità perché bravi ad adattarsi alle logiche algoritmiche ma che con la qualità (credibilità, approfondimento, verifica) non hanno niente a che fare.

Tutto questo mentre le grandi aziende tecnologiche stanno rimodellando profondamente il panorama dell’informazione anche in Italia, creando nuove sfide per i media tradizionali, in particolare per i quotidiani.

Il loro predominio nel mercato dell’attenzione e degli investimenti pubblicitari, unito all’ascesa dell’economia dei creatori digitali, sta portando a un’esperienza informativa frammentata e molto spesso “incidentale”: gli utenti ricevono informazioni in modo passivo, spesso senza cercarle attivamente, mentre sono intenti a guardare nei loro feed contenuti di intrattenimento.

Una modalità che non solo si discosta dalla relazione consolidata tra un giornalista e il suo pubblico tipica dell’informazione tradizionale ma “spersonalizza” la fonte giornalistica facendole perdere ulteriormente valore e rilevanza.

In questo quadro di crisi economica dei vecchi modelli sui quali è stata costruita l’industria dei giornali, ci sentiamo di ribadire la necessità di non assoggettarsi alla continua frammentazione della professione imposta dalle piattaforme che ci sta trasformando in tanti singoli “creator” alle dipendenze dei dettami delle logiche logaritmiche, ma di utilizzare (anche) il digitale, i suoi strumenti, la sua enorme potenzialità di connettere persone e idee, per creare nuovi modelli di collaborazione a sostegno del giornalismo di qualità.

Il quadro generale

Tra 2021 e il 2024, secondo le stime pubblicate nel report “World Press Trends Outlook 2023-2024” di WAN-IFRA (l’associazione mondiale degli editori della stampa), il peso dei ricavi delle copie cartacee sul totale dei ricavi da diffusione passano dall’88% all’83%. Nel medesimo periodo secondo queste stime il peso della carta sul totale dei ricavi pubblicitari è sceso dal 71% al 64%. In valori assoluti, i ricavi combinati da diffusione e pubblicità della stampa sono diminuiti globalmente nel periodo 2021-2024 di 9,8 miliardi di dollari mentre quelli da digitale sono cresciuti di 2,9 miliardi di dollari riequilibrando per meno di un terzo, quindi, la perdita della stampa tradizionale.

In Italia se guardiamo i dati degli ultimi resoconti di bilancio degli editori quotati in Borsa vediamo che a RCS Mediagroup (Il Corriere della sera e la Gazzetta dello Sport) i ricavi digitali sono il 25%[4] di quelli totali, per quanto riguarda GEDI (La Repubblica e La Stampa) sono dichiarati al 26%[5] del totale, a SeiF (editore del Fatto Quotidiano) il 28% dei ricavi del settore editoria e il 31% dei ricavi totali[6], mentre per il Sole 24 Ore i ricavi da digitale rappresentano il 52%[7] di quelli diffusionali del quotidiano economico, un’eccezione quest’ultima dovuta anche al fatto che la platea dei lettori della testata si basa, come noto, su una solida base di professionisti decisamente più propensi a optare per gli abbonamenti digitali.

Dati, questi, che si inseriscono in un contesto che vede le testate italiane decisamente più in sofferenza per quanto riguarda il declino delle vendite di copie cartacee con una ormai consolidata flessione al 10% anno su anno dei volumi di copie vendute, secondo le nostre elaborazioni dei dati ADS. Un flessione più marcata rispetto al -4% segnato dal sistema globale (quet’ultima stima sui volumi di copie vendute è ancora tratta dal report WAN-IFRA).

L’aggregato delle testate quotidiane censite da ADS nel 2024 ha registrato volumi di vendita (il dato è riferito al giorno medio nel periodo gennaio-novembre) è di 1,36 milioni di copie[8] tenendo conto complessivamente di tutte le voci di vendita: cartacee (vendute principalmente nelle edicole e in misura nettamente minore nella GDO), abbonamenti cartacei, copie digitali vendute ad un prezzo superiore del 30% del prezzo intero e copie digitali vendute a un prezzo tra il 10 e il 30% (queste due ultime voci sono un indicatore delle subscription digitali perché raramente messe in vendita dagli editori singolarmente ma principalmente soltanto nelle diverse offerte di abbonamento).

Rispetto al 2023 (il dato si riferisce al giorno medio nel periodo gennaio-dicembre), quando le copie medie vendute sono state 1,46 milioni di unità, una flessione del di circa 100mila copie medie (-7%). Se guardiamo ancora più indietro al 2022 la flessione è stata, nei due anni, del 15% (le copie medie vendute allora erano 1,59 milioni di unità) mentre rispetto al 2021 si registra una flessione nei quattro anni del 21% (quell’anno le copie medie vendute sono state 1,72 milioni).

È però fondamentale, per avere un quadro completo sulle diverse dinamiche di mercato, leggere le singole voci di vendita: nel 2024 il volume di venduto del canale edicola è sceso sotto il milione di copie medie: 932mila unità con una flessione sul 2023 del 10% (pari a  -98mila copie medie). Rispetto al 2022, la flessione delle vendite “individuali” tramite edicole è stata di 224mila copie medie (-19%) mentre quella subita dal 2024 sul 2021 è pari a 350mila copie medie (-27%).

Bisogna prendere atto che, a flettere, nel confronto con il 2021 sono quasi tutte le voci, comprese anche le copie digitali vendute a più del 30% del prezzo intero che perdono in quattro anni 35mila copie medie (-17%). Unica eccezione a tutti questi segni meno: le copie digitali vendute tra il 10 e il 30% del prezzo intero, che tra il 2021 e il 2024 crescono nel giorno medio di 52mila unità (+44%).

È però nel canale edicola quello dove per le testate quotidiane italiane transita, e di gran lunga, il volume maggiore di copie vendute. Ed è anche, ha valore ricordare, l’unico dove le copie vengono vendute a prezzo intero. Con un elemento però che vale la pena sottolineare: nel corso di questi ultimi anni il suo peso sul totale è diminuito gradualmente dal 75% del 2021 al 68% del 2024, quando per la prima volta è sceso sotto quota 70%.

Possiamo dedurre da questi dati due fondamentali tendenze dell’attuale sistema dei quotidiani italiani: 1) la flessione costante del canale edicola e 2) l’incremento delle copie digitali unicamente grazie a quelle vendute a prezzi più economici (tra il 10 e il 30% del prezzo intero). Certo stiamo evidenziando due tendenze ormai ben note, ma ha valore alla luce di questi ultimi dati, mettere in evidenza alcuni dettagli importanti.

La crisi della carta e l’ascesa degli abbonamenti digitali low-cost

La flessione del canale edicola è ormai, da anni, strutturale se analizzata sul medio e lungo periodo (questo vale sia per l’intero aggregato dei quotidiani italiani sia per le singole testate al di là di crescite su singoli mesi).

In un sistema come quello italiano che ancora si basa per tre quarti su vendite di cartaceo (nel 2024 ancora il 75% del totale se sommiamo i volumi del canale edicola e quelli degli abbonamenti tradizionali) per quanto tempo è ancora “sostenibile”, economicamente, questo declino?

Quanto, insomma, il nostro sistema che si basa su copie cartacee e distribuzione tramite canale edicola può sorreggere con i propri, sempre più risicati margini di guadagno, un sistema che anche per limiti di carattere generale (il digitale continua a non proporre modelli economici solidi per i giornali) ha accumulato ritardi nell’innovazione di prodotto?

La flessione anno su anno del canale edicola da noi è stata decisamente costante nell’ultimo triennio 2022-2024: -10% (con oscillazioni minime al di sotto del punto percentuale). Non considerando gli anni pandemici, nei quali il declino delle vendite dei quotidiani nelle edicole ha subito una inevitabile accelerazione di un paio di punti percentuali (-12% sia nel 2020 che nel 2021), possiamo vedere che anche il dato pre-pandemia del 2019 si attesta al -9,4%, perfettamente in accordo, quindi, con i dati registrati dal 2022 ad oggi.

Se ipotizziamo che nel prossimo triennio si ripeta, con medesima costanza degli anni precedenti, il medesimo tasso di decrescita (intorno al al 9,5%) del canale edicola, nel 2027 le copie cartacee vendute dell’intero aggregato dei quotidiani censiti da ADS a prezzo intero scenderanno sotto quota 700mila. E ancora: a fine decennio il sistema dei 60 quotidiani italiani avrà un volume di vendite intorno alle 500mila copie cartacee a prezzo intero nel giorno medio: più o meno quelle vendute dal solo Corriere della Sera nel 2004.

È facile dedurre che una flessione del cartaceo a prezzo intero con tasso costante intorno tra il 9 e 10% nel medio periodo non sia sostenibile nell’attuale sistema economico dei quotidiani italiani.

C’è inoltre da notare che l’incremento del peso delle copie (e quindi in generale degli abbonamenti) digitali, che oggi valgono un quarto delle vendite totali, è dovuto in modo significativo al rapido declino della carta, più che per “merito” di queste che complessivamente crescono — tra 2024 e 2023 — di appena uno 0,6%; un indice che ci dice che l’aumento delle vendite di copie digitali a prezzi super-economici riesce a malapena controbilanciare il declino di quelle, sempre digitali, vendute a prezzi maggiori.

Vale inoltre la pena sottolineare che l’incremento delle copie digitali più economiche — a scapito di quelle a prezzi maggiori — ha controindicazioni importanti: i margini di guadagno pressoché nulli e la svalutazione del valore economico percepito dal lettore del “prodotto” giornalistico offerto. Controindicazioni che nello scenario più ampio del mercato dell’attenzione hanno un peso non trascurabile nel declino della rilevanza dei giornali nei confronti degli altri media.

Ma allora perché adottare queste strategie e, visto che questa è una tendenza consolidata di questi ultimi anni, con questa perseveranza?

Da una parte, pragmaticamente, bisogna prendere atto che in generale gli editori italiani dimostrano di non avere la forza economica (e forse nemmeno la volontà) per fare gli investimenti necessari affinché gli abbonamenti digitali a prezzi più alti riequilibrino, almeno per una parte significativa, le costanti perdite economiche dal cartaceo.

È però fondamentale soffermarsi su una “qualità” che hanno le copie (e gli abbonamenti) digitali — anche quelle a prezzi molto economici con i loro margini di guadagno vicini allo zero — che le copie vendute in edicola non possono offrire: i dati di prima parte, molto preziosi oggi per gli editori, soprattutto se i volumi acquisiti di questa tipologia di dati sono significativi.

Più che a una logica da subscription-first questo tipo di strategie sembrano guardare maggiormente ai ricavi pubblicitari con due principali obiettivi, almeno in questa fase: 1) dare una risposta alla sempre più urgente necessità di offrire maggiore e nuovo valore agli investitori pubblicitari a fronte del declino degli spazi tabellari su carta; 2) dare maggiore valore alle campagne marketing sul sito proprietario trasformando, il più possibile, grazie a offerte super economiche, i semplici visitatori/lettori in utenti registrati (con dati prima parte annessi, appunto).

Poi, certo, “agganciare” il lettore occasionale al proprio sito o app è il primo passo verso una futura conversione a un abbonamento “premium” che però i dati appena analizzati ci dicono che, nel panorama dei quotidiani italiani, stenta non poco ad attuarsi.

Una strategia che può essere considerata un ulteriore indicatore del declino della rilevanza dell’industria dei quotidiani in Italia sia nel mercato consumer che in quello advertising.

C’è inoltre un altro aspetto che ha valore sottolineare in merito ai dati relativi: nel 2024: cinque testate nazionali — il Corriere della Sera, la Repubblica, il Sole 24 Ore, La Stampa e Il Fatto Quotidiano —  concentrano ben il 64% delle copie digitali vendute dell’intero aggregato di 60 testate quotidiane italiane censite da ADS; guardando ancora più nel dettaglio: le medesime cinque testate sommano il 58% di quelle vendute a prezzi maggiori e addirittura il 70% di quelle vendute tra il 10 e il 30% del prezzo intero.

Un mercato degli abbonamenti digitali decisamente disequilibrato che, ad esclusione di una manciata di quotidiani nazionali, vede la stragrande parte delle testate in difficoltà nello sviluppare strategie efficaci riguardo ai ricavi da digitale rimanendo quasi totalmente ancorata ai ricavi tradizionali. Un ulteriore dato a conforto di queste lettura: 46 testate su 60 del panorama censito da ADS hanno un’incidenza delle copie di carta sulla vendita totale superiore all’80%, in 25 di queste il dato è compreso tra 90% e 98%.

La maggior parte delle testate con un’incidenza degli abbonamenti digitali sul venduto sotto il 10% (19 su 25) sono quotidiani locali. In generale è inoltre da evidenziare che le testate locali hanno perso una quota significativa di lettori anche nei confronti delle testate nazionali: secondo i dati Audipress-Audicomm il peso dei quotidiani locali sul totale delle letture[9] tra 2014 e 2024 è sceso dal 47% al 44% (in valori assoluti si è passati da 13,2 milioni di letture a 7,3 milioni). Il tutto mentre tra 2019 e 2024 il fatturato della pubblicità locale per singolo spazio venduto si è lentamente, ma costantemente, eroso passando da 569 a 525 euro (-8%)[10].

In questo senso quando si parla di tenuta del sistema bisogna tenere conto della diversità di situazioni tra chi ha più strumenti e chi decisamente meno nell’affrontare le transizioni verso nuove tecnologie, i dati appena citati evidenziano come le testate locali si trovino in una situazione di maggiore debolezza.

Sebbene in Italia non abbiamo assistito alla “desertificazione” delle testate locali come, ad esempio, negli Stati Uniti — il numero complessivo dei quotidiani è rimasto sostanzialmente invariato in Italia in questi ultimi anni — il taglio del personale e i maggiori carichi di lavoro hanno depotenziato enormemente la capacità delle redazioni locali di presidiare il territorio e di mantenere un rapporto diretto con i propri lettori, da sempre il loro punto di forza per creare un rapporto di fiducia con le loro comunità di riferimento.

Vale la pena far notare, come ulteriore elemento “storico” in questo particolare contesto, come uno dei due principali gruppi editoriali italiani, GEDI, proprio in questi ultimi anni stia completando l’opera cessione di tutte le testate locali che nel 2015, per l’allora Gruppo Espresso, valevano ancora il 26% dei ricavi e il 66% del reddito operativo di tutte le attività del Gruppo.

C’è una deadline nella crisi “senza fine” del quotidiano di carta?

L’erosione dei ricavi pubblicitari della carta è stata, in questi ultimi anni, altrettanto costante di quella delle vendite: compresa in una forbice tra 4 e 6% nel periodo dal 2021 e il 2023 (e al 7,7% tra gennaio e ottobre del 2024, ultimi dati disponibili di FCP la federazione delle concessionarie pubblicitarie). Una flessione che ha portato a una costante svalutazione degli spazi pubblicitari sui quotidiani.

Porre un freno a queste flessioni (quelle dei due principali ricavi della carta diffusione e pubblicità) in maniera significativa però non sembra facile: la rete delle edicole, in Italia un tempo vero asse portante della filiera dei giornali molto più che in molte realtà estere (dove gli abbonamenti rappresentano una parte consistente del canale distributivo), da anni è in una fase di implosione, schiacciata oltre che dalla crisi dell’industria dei giornali anche da inefficienze “storiche”.

Pesano poi i ritardi nell’avviare concrete strategie di innovazione dei modelli economici — significativa diversificazione dei ricavi e nuove fonti di reddito, significativi investimenti nell’innovazione di prodotto, serie strategie di subscription economy “premium”. Insomma nell’attuale sistema da qui al 5/6 anni sembra esserci una deadline, un termine ultimo dove qualche — seria ed efficace — alternativa al modello economico edicola-centrico diventerà difficile da procrastinare ulteriormente per l’industria dei quotidiani italiana nel suo complesso.

Come già sottolineato all’interno di questo “sistema” ci sono differenze, a livello economico e nella capacità di dotarsi di strumenti per affrontare le continue sfide che i nuovi scenari digitali presentano. Ma proprio per la natura, e la rilevanza, che l’informazione ha oggi nella nostra società, per il valore del pluralismo, per il ruolo che ha nel contribuire a creare cittadini più consapevoli, è importante parlare di futuro dell’intero sistema dei quotidiani e non semplicemente considerare questa una mera competizione tra chi ha più possibilità di farcela — di camminare con le proprie gambe — e chi no. 

Le big tech e l’economia dei creatori e una fiducia in transizione tra nuovi e vecchi media

A livello globale i ricavi pubblicitari hanno raggiunto per la prima volta a fine del 2024 i mille miliardi di dollari, secondo le stime pubblicate a fine dello scorso anno da GroupM uno dei centri media più importanti al mondo (parte della holding WPP), è per il 2025 è prevista un’ulteriore +7,7% ma nonostante questa crescita le previsioni per la stampa sono di un’ulteriore flessione del 4,5% nel 2024 e del 3% nel 2025[11].

In Italia, sempre secondo GroupM, i ricavi pubblicitari digitali valgono nel 2024 circa 7 miliardi di euro, pari a una quota di circa il 60% dell’intero mercato pubblicitario nazionale. In questa cifra, è importante precisare, viene compresa anche l’offerta digitale dei media tradizionali (quindi ad esempio i ricavi pubblicitari dei siti dei giornali legacy o quelli delle piattaforme video on-demand di network come Rai e Mediaset) per una quota che gli analisti di di GroupM valutano intorno al milione di euro.

Si nota quindi che i ricavi dei cosiddetti pure-player (ovvero le aziende che operano unicamente nell’ambito della pubblicità digitale) intercettano circa l’85% di tutto di questo mercato, lasciando una quota marginale alle cosiddette “estensioni digitali” dei media tradizionali. Non solo: la quasi totalità dei ricavi pubblicitari dei pure-player è concentrata, anche da noi, soltanto in quattro giganti tecnologici — Google, Meta, Amazon, TikTok  — che valgono circa la metà di tutto il mercato pubblicitario (quindi non solo quello digitale)[12].

C’è quindi da notare che tre di queste grandi aziende tecnologiche sono le proprietarie delle piattaforme — Google con YouTube, Meta con Facebook e Instagram e TikTok — che a livello globale così come in Italia sono le più importanti promotrici dell’economia dei creatori.

È questo un elemento fondamentale: i feed di queste piattaforme basati su contenuti video, nella maggior parte di breve durata, che scorrono di contenuto in contenuto in modalità broadcaster (con una partecipazione sostanzialmente passiva dell’utente), sono oggi uno dei mezzi principali attraverso i quali le persone (soprattutto le generazioni più giovani) si informano e si intrattengono.

Secondo il Rapporto sulla comunicazione di AgCom in Italia gli utenti medi mensili dei siti di informazione sono mediamente intorno ai 38 milioni, una cifra di poco inferiore ai 39 milioni degli utenti mensili medi dei siti o app social media. C’è però da notare una differenza sostanziale: il tempo medio speso da un utente sui siti di informazione generalista varia tra 1 ora e 5 minuti di settembre 2023 e 1 ora e 7 minuti di settembre 2024, mentre il tempo medio speso da un utente dei social media è stato, nel medesimo periodo, compreso tra le 22 ore e 26 minuti e le 23 ore e 15 minuti. Se gli utenti medi per mese sono, sostanzialmente, lo stesso numero, il rapporto di tempo speso sui social media è superiore di oltre 20 volte quello dei siti di informazione.

Un dato che ci dà un’idea dei rapporti di forza, anche in Italia, del nuovo mercato dell’attenzione dominato dalle piattaforme tecnologiche a forte contenuto video che oggi, oltre a monopolizzare lo schermo dei telefonini, stanno sempre più occupando spazio anche negli schermi TV (le cosiddette connected tv vere e proprie estensioni dello smartphone e, ormai, il nuovo standard per questi apparecchi).

I giornali e più in generale i media mainstream si trovano a competere con un enorme quantità di altri soggetti, a cominciare dai creatori digitali attratti in numero crescente dalle nuove modalità di monetizzazione dei contenuti promesse da social media come, appunto, YouTube, Instagram o TikTok.

Come, in questo nuovo contesto, finiscono per essere recepite dalle persone le notizie? È molto interessante leggere un recente (gennaio 2025) report del principale istituto di ricerca americano, il Pew Research Center, a proposito dell’esperienza degli utenti con le notizie su un social media come TikTok dove circa la metà degli utenti pari al 17% di tutti gli adulti statunitensi, afferma di ricevere regolarmente notizie tramite la piattaforma[13]: “Molti account mescolano le notizie con una varietà di altri argomenti, dai pettegolezzi sulle celebrità alle barzellette e ai meme. Circa il 43% degli account che hanno discusso di notizie o politica durante il nostro periodo di studio del 2024 ha anche pubblicato contenuti di intrattenimento e cultura pop, e poco più di un terzo (36%) ha anche pubblicato contenuti umoristici. Gli utenti TikTok potrebbero ricevere notizie da questi account anche se non si concentrano principalmente o esclusivamente sugli eventi di attualità”.

Dunque, questi studi recenti del Pew Research Center dimostrano che gli utenti di TikTok tendono a ricevere notizie da una varietà di fonti, e spesso senza cercarle attivamente. Una modalità  di consumo delle notizie che può essere ampliata agli altri principali social media, anche perché molti dei contenuti adottano format capaci di essere pubblicati identici su una piattaforma come su un’altra.

L’esperienza con le notizie e i contenuti giornalistici quindi, come ha fatto notare la rivista  The Atlantic in un suo pezzo “The End of News – Legacy media has a trust problem, but it’s not too late to solve”[14] è costituita da informazioni inserite sporadicamente in un feed e non da una relazione consolidata tra un giornalista e il suo pubblico.

D’altronde uno studio della Pew-Knight Initiative del 2024 afferma che il 37% degli utenti di TikTok sostiene di ricevere regolarmente notizie da influencer delle news (su uno qualsiasi dei siti di social media che utilizzano) e che la maggior parte di questi influencer su TikTok (84%) non ha background o affiliazione con un’organizzazione di notizie.

E sebbene queste considerazioni siano oggi riferite alla realtà americana, sappiamo bene che le dinamiche e i comportamenti nello scenario globale delle piattaforme tendono ad uniformarsi ad ogni latitudine.

TikTok ad esempio in Italia è passato tra settembre 2020 e settembre 2024 da avere 6,5 milioni a 21,9 milioni di utenti unici mensili con una crescita nei quattro anni del 235% mentre, per dare un termine di paragone, Facebook cresceva nel nostro Paese del 2% (36,2 milioni di utenti medi/mese a settembre 2024) e Intagram del 24% (33,8 milioni di utenti/mese sempre a settembre 2024)[15].

In buona sintesi[16]: “l’informazione ‘capita’ mentre ci si intrattiene online. Non ci si informa volontariamente, si sanno le cose per caso e l’attenzione va sulla storia più ‘appiccicosa’. Magari è falsa da capo a piedi, ma sei già passato oltre e quella ‘notizia’ ti rimarrà in testa e chi si ricorderà più dove l’avevi presa, ma l’hai sentita e, forse, dovrebbe essere vera”.

In Italia l’83,7%[17] degli italiani secondo il Censis si informa utilizzando lo smartphone. La frammentazione dell’offerta è confermata anche dal report “Digital News Italia” realizzato dal Master di giornalismo “Giorgio Bocca” dell’Università di Torino in collaborazione con il Reuters Institute[18]: nella classifica della fonte principale utilizzata per informarsi (un’unica fonte) soltanto il 2% del campione di italiani analizzato ha indicato i quotidiani di carta e l’8% la loro versione web, quindi un 10% complessivo tra carta e digitale, che equivale alla quota di chi ha indicato i siti web di altri media informativi (10% appunto); una quota però superata nettamente dai social (17%) e dalla TV che complessivamente somma tra “programmi di informazione e telegiornali” (34%) e “canali all news” (16%) un 40%.

Al di là del dato, abbastanza scontato, del primato televisivo vediamo come anche in Italia i social media superano i quotidiani come principale canale di informazione rappresentando una quota doppia nella versione online e addirittura oltre otto volte superiore a quella dei giornali cartacei.

 

NOTE

[1] WAN-IFRA, World Press Trends Outlook 2023-2024.

[2] Lelio Simi, Leggere la nuova complessità. Gli effetti del digitale sulle strategie dell’industria italiana dei quotidiani, Osservatorio Giornalismo Digitale Report CNOG, 2023.

[3] Lelio Simi, Una nuvola scintillante di frammenti”: l’informazione al tempo dei nuovi social e lo “spacchettamento” della professione Osservatorio Giornalismo Digitale Report CNOG, 2023.

[4] RCS mediagroup, Documento Bilancio al 31 settembre 2024.

[5] Aldo Fontanarossa, Gedi più 50% di abbonati digitali. Un valore il giornalismo indipendente, La Repubblica, aprile 2024.

[6] Elaborazioni da Documento bilancio consolidato intermedio Gruppo Società Editoriale Il Fatto, giugno 2024.

[7] Documenti bilancio intermedio Gruppo 24 Ore, settembre 2024.

[8] I dati di vendita si riferiscono unicamente a quelle che ADS definisce “vendite individuali” cioè quelle fatte a singole persone e non a “pacchetto” ad aziende, enti o associazioni.

[9] In queste elaborazioni sui dati Audipress sono state prese in considerazione le “letture” e non i “lettori” per tenere conto di chi legge più di una testata e, quindi, poter calcolare la percentuale delle singole testate o gruppi di testate sul totale.

[10] Elaborazioni da dati FCP Stampa.

[11] GroupM, Report “This Tear, Next Year”, dicembre 2024.

[12] GroupM, Il Mercato Pubblicitario Italiano, dicembre 2024

[13] Luxuan Wang, Galen Stocking,Samuel Bestvater and Regina Widjaya A closer look at Americans’ experiences with news on TikTok, gennaio 2025, Pew Research Center.

[14] Charlie Warzel, The End of News – Legacy media has a trust problem, but it’s not too late to solve, The Atalntic, dicembre 2024.

[15] AgCom, Osservatorio sulle Comunicazioni n. 4/2024, elaborazioni Agcom su dati Audicom/Audiweb.

[16] Stefano Minguzzi, account Thread.

[17] Censis, comunicato stampa,  «Comunicazione e media» 58° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2024, dicembre 2024.

[18] Sito Master Giornalismo Torino, Il Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” dell’Università di Torino lancia il Digital News Report Italia 2024, giugno 2024.

 

LELIO SIMI

Giornalista, ha iniziato nella carta stampata dove è diventato professionista, si occupa di informazione e Internet dal 2001 in uno dei primi network di portali online di informazione in Italia. Si occupa principalmente di innovazione, strategie e modelli di business editoriali raccontando, in particolare, la profonda trasformazione avvenuta nell’industria dei media in questi anni attraverso reportage e inchieste pubblicate— tra gli altri — da Il Manifesto, Pagina 99, Link, Eastwest, Altreconomia, L’Essenziale. È stato uno dei fondatori del gruppo di lavoro DataMediaHub, una delle prime esperienze di data-journalism in Italia, nella quale si è dedicato in particolare all’analisi  dei dati economici dell’industria italiana dei giornali. È uno degli autori dell’antologia “Datacrazia” (D Editore, 2018), nel 2021 ha pubblicato per Hoepli “#Mediastorm – Il nuovo ordine mondiale dei media”. #Mediastorm è anche la sua newsletter.

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