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Quello a cui stiamo giocando non è un gioco - Ordine Dei GiornalistiOrdine Dei Giornalisti

Ordine dei Giornalisti - Consiglio Nazionale

Quello a cui stiamo giocando non è un gioco

09/02/2025

immagine realizzata con IA Midjourney

"LA RILEVANZA"

REPORT 2025
Scenari e prospettive

Quello a cui stiamo giocando non è un gioco

Andrea Garibaldi
Giornalista, Direttore Professione Reporter

I giornalisti sono già in parte scomparsi nel panorama sociale, possono diventare davvero marginali.

Tuttavia, esiste ancora la possibilità per costruire una vera e propria “resistenza”, che non solo – alle condizioni che cercheremo di spiegare – è praticabile, sarebbe anche utile a puntellare il funzionamento del sistema democratico.

Sempre meno. I giornalisti contano sempre meno. Negli ultimi venti anni una categoria che era rispettata, temuta, ben retribuita, di cui molti ambivano a fare parte, è diventata -fatte salve alcune “riserve indiane” – poco credibile, poco rispettata, mal pagata.

E scarsissimi sono i giovani che aspirano ad accedervi.

Numeri da brivido. I giornali di carta – ha detto il Presidente di Agcom Giacomo Lasorella – fra dieci anni li leggerà, in Italia, una famiglia e mezza su 100. Le copie (carta più digitale non “semi regalato”) calano del 10 per cento l’anno. Nel 1990 si vendevano 6,8 milioni di copie di quotidiani al giorno, nel 2024 siamo sotto ai due milioni. In tv i migliori talk di attualità giornalistica stanno sempre sotto il 10 per cento di share, gli altri sotto il 5.

La pubblicità è in calo sugli organi di informazione, dato che il 44 per cento del traffico finisce su Google, Facebook, Amazon.

Fatti a brandelli. Mangiati, gli organi d’informazione, dall’avanzare sempre più incessante delle piattaforme. Sempre più persone si informano su Google, su Facebook, su TikTok. Anche se questi nuovi padroni del mondo, in linea di massima, non fanno informazione. Non sono interessati, non hanno mai costruito redazioni con giornalisti per produrre notiziari originali. Riprendono notizie pubblicate dai mezzi d’informazione, in modo che le persone che approdano da loro per i più svariati motivi trovino anche questo tipo di “prodotto”.

Consuete scorciatoie. Questo è il quadro, queste sono le tendenze e al momento non mostrano segnali di inversione, anzi i giornali perdono sempre più pubblico e le piattaforme allargano sempre di più il loro potere invasivo e onnicomprensivo. Molte delle contromisure di editori e giornalisti appaiono peggiori del male. Prendiamo gli editori. In Italia continuano a puntare sulla parola “prepensionamenti”: soldi dello Stato e dell’Istituto di previdenza dei giornalisti (fallito anche per questo) per mandare a casa i giornalisti ultrasessantenni, con gli stipendi più alti, ma in molti casi, i più esperti.

La droga dei clic. Nel mondo l’avanzata delle piattaforme ha generato negli organi di informazione – a partire dal Terzo Millennio – l’ansia dei clic. Passaggio epocale, descritto puntigliosamente in “Traffic” da Ben Smith (Altrecose Editore). L’informazione non è più l’esigenza di raccontare il mondo, di spiegarlo, di contestualizzarlo (anche se da punti di vista diversi), ma è brama di essere “cliccati” dal maggior numero di persone, con il fine di “vendere” poi questo pubblico alla pubblicità. Quindi, animali che giocano, liste di ogni genere, pruriginosi eventi, interviste a personalità insignificanti ma “popolari”.

Cronisti rider. Accanto a questo, il deprezzamento della professione “classica”. Due storiche testate regionali (già nazionali) pagano i collaboratori sette euro al pezzo. E i collaboratori, nel giornalismo italiano in particolare, sono quelli che scrivono tanta parte dei giornali.

Marchi come notizie. Oggi il giornalismo ha sulla testa due spade di Damocle.

La prima è la pubblicità, che essendo diventata vitale, detta condizioni.

La principale: non vuole più occupare spazi dedicati e ben distinti dall’informazione, vuole insinuarsi nell’informazione, confondersi con l’informazione, per lanciare ai lettori messaggi senza che questi s’avvedano che sono a pagamento.
Gli editori, in particolare qui da noi, hanno accettato il patto col diavolo. Fanno fare titoli su iniziative di marchi, come se fossero notizie, promuovono le loro altre aziende e iniziative.
Hanno aperto pagine di “Eventi”, inserti “Moda”, “Turismo”, “Spettacoli”, “Mostre”,” Bellezza” e “Orologi”, confezionate con articoli che paiono giornalismo e non lo sono.

Seconda spada, l’Intelligenza artificiale. Può essere utilizzata in tanti modi. Per esempio, per “arare” i social allo scopo di trovare i testimoni oculari di un fatto di cronaca, ovvero per “arare” i social al fine di scovare pre-news, quello che sta bollendo e che potrà diventare notizia.
Le tendenze di Borsa o i più probabili disastri climatici. Ma c’è anche chi rileva siti in difficoltà e li trasforma in attrattori di clic, notizie gossip, banalità svuota-menti e fake. Firmati da falsi giornalisti. Senza neanche un giornalista al lavoro, solo algoritmi che pescano negli oceani del web.

Patti col nemico. La maggior parte degli editori nel mondo ha intravisto nell’AI occasioni di risparmio e occasioni di guadagno.

A parte il New York Times, che ha portato OpenAI (ChatGPT) in tribunale per il saccheggio costante di sue inchieste e di suoi articoli, giganti come Condé Nast, Vogue, New Yorker, Axel Springer, News Corp, Vox, The Atlantic e Time hanno già siglato accordi con OpenAI. E in Italia Gruppo Monti-Riffeser, Gruppo Gedi (la Repubblica e La Stampa), Corriere della Sera. Accordi diversi l’uno dall’altro, ma che sostanzialmente “vendono” ai signori dell’Intelligenza artificiale anni e anni di contenuti passati e di contenuti futuri, realizzati dai giornalisti.

Misteriose clausole. “Vendono” a quanto? In cambio di cosa?
Non si sa. Gli accordi sono riservati, segreti. In qualche caso AI offre strumenti e accessi alle tecnologie, in altri link alle testate, in altri semplicemente denaro. Ma i giornalisti -quando hanno avuto l’ardire di chiedere chiarimenti – sono stati respinti. Inoltre, se gli accordi sono economici, non c’è nessuna percentuale per i giornalisti, autori dei contenuti. A parte, per ora, due situazioni in Francia, a Le Monde e a Le Figaro, dove è stata riconosciuta ai giornalisti una quota degli introiti.

Cedimenti strutturali. A fronte di tutto ciò, ci sono le reazioni dei giornalisti. Che, di solito, sono non-reazioni. Alla fine di settembre 2024 è successa una storia importante.

Il Comitato di redazione de la Repubblica ha scoperto due cose: le missive scritte dall’organizzatrice dell’evento “Italian Tech Week” ai redattori del servizio Economico, coinvolti nelle moderazioni sul palco, nelle quali spiegava “che a comandare sono gli sponsor”; un file con i prezzi riconosciuti da una serie di aziende a Repubblica per ciascun articolo dell’inserto collegato all’evento. Dopo richieste di chiarimenti – con risultati insoddisfacenti – alla Direzione e all’Azienda, il Cdr proclama due giornate di sciopero che coincidono proprio con i giorni dell’evento colpendo pertanto l’interesse della proprietà.

Conseguenze zero. Pochi giorni dopo questa clamorosa protesta, il Direttore de la Repubblica, Maurizio Molinari, viene sostituito e al suo posto arriva Mario Orfeo. Poi, non succede più niente. Nessuno presenta un esposto al Consiglio di disciplina dell’Ordine, dagli altri giornali arriva solidarietà, ma non viene colta l’occasione per affrontare episodi analoghi di commistione fra notizie e pubblicità, presenti ovunque. I grandi nomi della categoria non si curano della questione, vanno avanti con promozioni di libri e contratti in tv.

Nessuna chiarezza. Sull’Intelligenza artificiale il copione è simile. Qui non c’è l’incidente, ma è sempre il coraggioso Cdr di Repubblica a chiedere all’Azienda di leggere l’accordo con OpenAI

Risposte vaghe: i contenuti sono ceduti in cambio di partecipazione allo sviluppo dell’AI e di più traffico per i propri siti.

Categoria fatta di isole. Abbiamo parlato dei danni provocati dagli editori. Ma nell’emarginazione del giornalismo è presente anche il contributo dei giornalisti.

Una categoria fatta di isole. Le Grandi Firme, i giornalisti dei grandi quotidiani, quelli dei medio-piccoli, i collaboratori fissi, i precari, i fotoreporter, i grafici, e poi le nuove figure come videomakers, esperti di social. Alcuni vivono nella sicurezza o nell’illusione di essere tuttora protetti e non vogliono mescolarsi con le fasce più basse, ritenendo di trovarsi per sempre su una barca diversa, in prima classe.

Capitolo a parte. Categoria a sé stante, i Direttori.

Secondo l’architettura dell’articolo 6 del Contratto di lavoro – scaduto otto anni fa, ma ancora in vigore – il direttore è comandante in redazione ed è il tramite fra Editore e giornalisti. Una figura che si colloca nella terra di mezzo fra azienda e redazione, che resta però un giornalista, soggetto a tutte le regole professionali e deontologiche.
Da tempo è in atto uno scivolamento dei direttori verso le Aziende, fanno i mediatori sì, ma nel senso che cercano di far digerire alle redazioni i voleri delle proprietà. Si sentono manager. Nell’anno 2024 in alcune situazioni – Il Sole 24 Ore, la Repubblica, Agi, Il Tirreno, Il Centro e Tuttosport – le redazioni hanno votato la sfiducia ai loro direttori e tutti loro, immancabilmente, sono rimasti al loro posto.

Eppure, si può. Arrivati a questo punto, si dovrebbero deporre le armi.
Ma non è così. La possibilità di una resistenza esiste, nel nome del bene primario che i giornalisti sono chiamati a realizzare, la ricerca della realtà dei fatti, o come si dice, con maggiore enfasi, l’avvicinamento continuo alla verità.
Al punto in cui siamo giunti, c’è poco da dibattere, il quadro è chiaro, si tratta solo di capire se esiste la volontà di intervenire.
Le piattaforme hanno preso in mano il mondo (da poco sono presenti anche alla Casa Bianca), ma non sono interessate alla realtà, tantomeno alla verità (solo ai loro fantasmagorici profitti). Avevano cominciato a pizzicare un po’ d’informazione, riproducendola dalle testate professionali, ma la tendenza ultima è di diminuire l’impegno in questo campo.
Facebook (o Meta) ha da poco comunicato che rimuoverà anche l’applicazione sul fact-checking, la verifica di ciò che pubblicano. Il campo, quindi, è di nuovo quasi sgombro.

Regole precise. Vediamo di tornare all’essenza.
Con la pubblicità non si negozia. L’informazione non può essere mescolata con la pubblicità, nemmeno se si trova all’ultima spiaggia. Se un lettore sospetta che un servizio possa essere inquinato dalla pubblicità, perderà la fiducia in ogni articolo.
Molti giornalisti pensano ormai che, in nome dei residui introiti garantiti dalla pubblicità, si possa chiudere un occhio, anche uno e mezzo. Invece è soltanto un suicidio.
L’Intelligenza artificiale può aiutare molto, sempre nella direzione della ricerca della verità, della spiegazione di ciò che accade. Può far risparmiare tempo, in certi casi.
Non deve servire a risparmiare sul lavoro di donne e uomini e ad ottenere visioni standard.
Sull’indipendenza non si tratta. È vero, gli organi d’informazione tradizionali hanno dei proprietari, i quali sono portatori di interessi: si deve sempre spiegare con chiarezza al lettore quando si parla di quegli interessi; in tutti gli altri casi testa alta e nessuna servitù, in ogni campo del giornalismo, dalla Politica allo Sport, per citarne due particolarmente colpiti da tifo e passioni.

Indipendenti crescono. Sono nate e crescono nuove forme di giornalismo, non esiste più solo Corriere della Sera e Rai. C’è Fanpage, c’è Open, c’è Il Post, c’è il gruppo di inchieste Irpimedia.
Ci sono pagine su Instagram come Will Ita e Factanza. Ci sono i nuovi bloggers, video bloggers, audio bloggers e le newsletter come quelle di Stefano Feltri e Francesco Oggiano, per segnalare due fra le più interessanti. Ci sono i podcast di Chora, guidata da Mario Calabresi. Tutti rispettosi, in linea di massima, delle regole classiche del giornalismo, coniugate con nuovi mezzi e nuove strutture. Tutti impegnati anche a trovare mezzi di sostentamento, principalmente da parte degli stessi utenti.

A cosa serviamo. Il giornalismo serve a trovare notizie che non si conoscono. E serve a spiegare le cose che accadono. Non esiste giornalismo di qualità e giornalismo trash, esiste solo il giornalismo e risponde a queste due domande: cosa è successo e perché.
Il riferimento è soltanto il pubblico. Oggi i giornali (in particolare quelli italiani) sono pieni di argomenti che interessano i Palazzi – politici ed economici in particolare – sono pieni di spazi dedicati a temi di relativa importanza, se non per gli equilibri del potere.
Il giornalismo deve servire a raccontare che un ministro ha fermato un treno perché lui era in ritardo, che nel carcere di Santa Maria Capua Vetere c’è stato un pestaggio di detenuti. E serve a spiegare cosa avviene a Gaza e le ragioni che hanno portato a quel punto, senza stare pregiudizialmente dalla parte di Israele o dalla parte dei palestinesi.
Cosa accade in Ucraina e cosa è accaduto tanti anni fa.
Cosa ha detto di vero il presidente del consiglio nella conferenza stampa di inizio anno e cosa ha esagerato o minimizzato.

Studio. Limpidezza. Trasparenza. Chiarezza. Così si può resistere e si deve.
Così i giornalisti possono cominciare a ricostruire la fiducia perduta nei loro confronti e poi provare a dare una sostenibilità economica al loro operare.

ANDREA GARIBALDI

Dal 1978 al 1998 lavora a Il Messaggero come cronista, vice capo delle Cronache italiane, inviato e vicecapo della Cronaca di Roma. Dal 1998 dirige la Cronaca di Roma al Corriere della Sera; dal 2004 è inviato speciale al Corriere della Sera.
Dal giugno 2019 gestisce con Vittorio Roidi il sito Professionereporter.eu: notizie e commenti sulla galassia dell’informazione.
Dal 2019 con la professoressa Donatella Pacelli insegna Processi culturali e agende mediali all’università Lumsa di Roma.
Nel 2021 è stato portavoce del candidato sindaco di Roma Roberto Gualtieri.
Ha pubblicato: “Qui comincia l’avventura del signor…”, gli inizi dei protagonisti del cinema italiano (Casa Usher, 1984); ”C’era questo c’era quello”, biografia dei press agent del cinema Lucherini & Spinola (Mondadori 1984); ”Piombo e carta, cronache da Sarajevo assediata” (Protagon 1994); “La colata”, l’Italia massacrata dal cemento (chiarelettere, 2010)

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