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REPORT 2024

Salvare il giornalismo locale per salvare la democrazia

Gabriel Kahn
Docente di giornalismo – Università Sud California

Come avrete saputo, il giornalismo americano non se la passa bene. Il Los Angeles Times ha eliminato il 20 per cento della redazione in un solo giorno; Sports Illustrated ha licenziato tutti in tronco; e Vice, la testata che avrebbe dovuto attirare i giovani e rappresentare il futuro dell’informazione, ha dichiarato bancarotta. E questo soltanto nei primi due mesi dell’anno.

Il declino negli Stati Uniti è cominciato ormai da diverso tempo. I news deserts, o deserti dell’informazione (termine coniato da Penny Abernathy per indicare le aree prive di fonti di notizie locali), costituiranno presto un quarto del Paese. La seconda catena della nazione impiega un modello di business basato sui ghost papers, giornali spesso redatti da un unico giornalista e riempiti con take di agenzia.

La situazione contemporanea è un po’ come la storia della bancarotta del personaggio di Hemingway ne “Il sole sorge ancora”. E’ successo così: “gradually, then suddenly”, un po’ alla volta e poi all’improvviso.

Quel che ancora si stenta a capire è che il problema non è insito nel giornalismo, ma è un problema di democrazia. Le società democratiche non possono funzionare senza una stampa indipendente. Purtroppo, in questo momento negli Stati Uniti, in vista di una delle elezioni più importanti della sua storia, c’è proprio un vuoto di informazione autonoma.

Solo 50 anni fa, un’inchiesta del Washington Post costrinse Nixon alle dimissioni. Oggi, invece, non sono bastate indagini approfondite sull’ex presidente Trump — la frode fiscale, la corruzione, gli abusi sessuali, l’incredibile incompetenza nel gestire la pandemia, perfino il tentativo di un golpe — per spostare l’ago della bilancia. La sua popolarità è praticamente intatta. Trump è, al momento, il favorito all’elezione di novembre.

Dietro a questa trasformazione c’è un nemico ormai ben noto: Big Tech.

Ma puntare il dito non risolve il problema. E` necessario smontare la questione pezzo a pezzo, per trovare il bandolo della matassa.

Al fondo, c’è un fallimento del mercato: l’offerta di notizie non soddisfa la domanda. Il buon giornalismo esiste, ma il pubblico è altrove. Non lo vede. Non sa nemmeno dove andare a cercarlo.

Io ho il privilegio di insegnare giornalismo all’università. I miei studenti sono giovani, intelligenti e idealisti. I miei colleghi e io ci troviamo sempre più spesso a spiegare a questi ragazzi a mettere insieme le notizie in un formato che loro stessi non conoscono e non consumerebbero. I giovani ventenni non leggono articoli di 60 righe sui siti web dei giornali, né guardano pezzi di 3 minuti e 50 in televisione.

Ricevono invece le loro informazioni da un mercato completamente diverso, strutturato per attirare e trattenere, con ogni mezzo, la loro attenzione. E` il mercato digitale, che negli anni ha sviluppato algoritmi sofisticati e spregiudicati per catturarli e tenerli incollati, fino a renderli dipendenti — quasi drogati.

All’inizio di ogni semestre, io chiedo ai miei studenti di documentare le loro abitudini di consumo digitale per un periodo di 24 ore, a intervalli di 15 minuti. I risultati sono allarmanti. Loro stessi spesso restano scossi e sorpresi. Una mia studentessa, ad esempio, ha scoperto di aver trascorso sei ore della giornata in esame su TikTok. Altri hanno confessato di controllare il telefonino più di 140 volte al giorno.

Il consumo di notizie avviene all’interno di questo caos frenetico. In questo marasma, l’informazione diventa indistinguibile da tutto il resto – video di gatti, pubblicità, aggiornamenti dagli amici, ancora pubblicità. Non ci sono demarcazioni. Tutto fa parte di un minestrone di contenuti.

In pratica, le acque reflue dell’informazione scorrono scorrono attraverso le stesse tubature delle acque potabili, le inquinano, le rendono velenose.

Molti studenti sono consapevoli di questa carenza di informazione seria e affidabile. Allo stesso tempo, fanno notare che le notizie accurate arrivano, nella maggior parte dei casi, in un packaging semplicemente inadatto a loro. Tomoko Chien, studente di 21 anni all’università dove insegno, sta tentando di risolvere questo problema con un prodotto che ha chiamato College Brief, progettato per rendere le notizie accessibili alla sua generazione. Secondo lui, la situazione è grave: “I giovani entrano nel mondo reale, votano e partecipano alla vita civile, senza alcuna comprensione di ciò che accade intorno a loro, e senza nemmeno le abitudini e gli strumenti per iniziare a farlo se volessero”.

Molti esperti ritengono che per andare incontro ai giovani sia necessario portare le grandi testate su TikTok e Instagram, per renderle attuali e “hip”. Il New York Times e il Washington Post hanno infatti ormai i loro canali TikTok, a così molti altri.

Questo dimostra soltanto che i giornalisti sono incapaci di imparare dai loro errori.

Un quarto di secolo fa, nel tentativo di stare al passo con i tempi, i giornali si trasformarono in siti Internet. Il costo della distribuzione scese a zero. L’iniziale euforia di ciò che questo sembrava promettere – accesso globale a giornali come il New York Times, spazio per più voci – si trasformò rapidamente in incubo.

Il giornalismo, accodandosi acriticamente al trend senza capirne davvero la portata, finì con il perdere il controllo dei mezzi di produzione. Fino a quel momento, gli editori erano proprietari delle rotative o delle frequenze di trasmissione televisiva. Questo garantiva alle redazioni un certo grado di autonomia e di potere.

Con il passaggio in blocco al digitale, il giornalismo di fatto consegnò quel potere a un pugno di società interessate al profitto e non alla accuratezza dell’informazione, cioè, appunto, le grandi piattaforme.

Un quarto di secolo più tardi, Alphabet, la società madre di Google, controlla l’accesso a tutte le informazioni. Gran parte dello storage di Internet è ospitato sui server di Amazon. Le conversazioni tra individui sono quasi del tutto sotto il controllo di Meta, la società madre di Facebook. Tre conglomerati controllano tutta l’informazione globale

Da allora, il giornalismo ha cercato di cambiare forma, nel tentativo di rincorrere ciò che piace a Big Tech. In pratica, il direttore responsabile dei giornali di tutto il mondo si chiama Google. La domanda non è più: questo articolo è ben scritto, chiaro, accurato? No, l’unica vera domanda è: questo articolo è SEO-friendly? Se il tuo pezzo finisce alla pagina 10 di una ricerca Google è come se non lo avessi mai scritto.

L’esistenza di Facebook, inoltre, ha portato a una riclassificazione di tutta l’informazione sulla base dei suoi cinque emoji. Abbiamo sostituito criteri come accuratezza o impatto con le emozioni — divertimento, amore e, soprattutto, rabbia. Come hanno rivelato i Facebook Files, la rabbia la fa da padrona sulla piattaforma. Perché?  Perché è l’emozione che ci tiene incollati allo schermo più a lungo di tutte le altre. Non c’è da stupirsi se siamo in guerra gli uni contro gli altri.

Questa sottomissione a Big Tech è una chiara erosione della libertà di stampa. Le piattaforme digitali sono ora, di fatto, le custodi della “verità” e del dibattito pubblico.

E questo non è nemmeno l’aspetto più dannoso.

A questo punto, Big Tech detta, senza contraddittorio, le regole del mercato. In un paradosso economico senza precedenti, rappresenta sia l’acquirente che il venditore negli scambi pubblicitari, Fissa i prezzi e indirizza il traffico dove più le conviene. Al momento, Meta e Alphabet raccolgono 50 centesimi su ogni dollaro speso in pubblicità digitale. Aggiungiamoci TikTok, X e Amazon, e il controllo è quasi completo. Tutte le altre pubblicazioni si spartiscono i pochi centesimi che rimangono.

L’anno scorso, le entrate di Alphabet hanno totalizzato 307 miliardi di dollari, mentre quelle del New York Times hanno appena raggiunto i 4,5 miliardi. La capitalizzazione di mercato del New York Times è lo 0,04% di quella di Alphabet. E` evidente come si tratti di una lotta impari.

Non puoi vincere la partita quando il tuo avversario scrive e cambia il regolamento durante il gioco.

Per uscire da questa situazione, sarà necessario riportare il giornalismo alle sue origini, in pratica reinventarlo da zero. La domanda di base è: di quali informazioni hanno effettivamente bisogno gli utenti?

Nel tentativo di dare una risposta, negli Stati Uniti è stata lanciata recentemente una campagna chiamata Press Forward, che finora ha raccolto più di 500 milioni di dollari, con l’obietitvo di ricostruire il giornalismo dalle fondamenta. Per fondamenta, la campagna intende l’informazione locale.

Il giornalismo è un ecosistema. Negli ultimi 25 anni il fitoplancton di questo ecosistema, l’informazione locale appunto, si è eroso a un ritmo allarmante. Il giornalismo locale è il più vicino alla vita di tutti i giorni delle persone. Si occupa di questioni quotidiane, come la sicurezza pubblica, la qualità delle scuole, le condizioni delle strade, la salute delle imprese locali. L’esistenza di un’informazione locale vigorosa dimostra che il giornalismo è una risorsa essenziale per l’andamento della vita civile e democratica.

Il messaggio centrale di Press Forward è di evitare l’errore del passato. Non si può costrurire il business dell’informazione sulla scia di Big Tech e poi stupirsi se il risultato è scadente. Il giornalismo ha bisogno di creare la sua propria infrastruttura, il suo proprio mercato, e, soprattutto, il suo proprio rapporto con il pubblico. Deve uscire dall’orbita tossica delle multinazionali digitali.

Che cosa significa questo, concretamente? La mia risposta è un progetto chiamato Crosstown. Insieme al mio collega, il Prof. Luciano Nocera e il suo team di talentuosi informatici, abbiamo creato un modello di testata in grado di raccogliere dati in tempo reale sulle questioni che più interessano alle comunità locali: gli incidenti stradali, la criminalità, il mercato immobiliare, l’economia della zona. Analizziamo poi questi dati per dar loro significato e raccontare storie sulle comunità locali, allo scopo di permettere ai cittadini di interpretare, capire e partecipare alla vita civile.

Le notizie locali uniscono le comunità. Le notizie nazionali e globali le dividono.

Questo progetto è solo un esempio. Il nocciolo della questione sta nella volontà di sperimentare partendo dall’esigenze del pubblico e non dalle sacre tradizioni del mestiere. Si tratta di immaginare quindi fonti di notizie locali fidate e in grado di rispondere alle domande del pubblico, sia che si tratti di esplorare la qualità di una scuola pubblica o di denunciare l’esistenza di buche sulle strade. Il giornalismo ha bisogno di avvicinarsi alle persone nel loro habitat quotidiano.

Per parte mia, scommetterei qualunque somma che il futuro della democrazia americana riposi, in non piccola parte, sul successo di iniziative come Press Forward. Se non riusciremo a costruire un’infrastruttura indipendente per il giornalismo, libera dai capricci di Big Tech, allora non saremo più un feature della democrazia, ma un bug.

 

GABRIEL KAHN

Gabriel Kahn e` professore di giornalismo all’University of Southern California. In precedenza, è stato corrispondente per Europa meridionale dell’Wall Street Journal. Nel 2018, ha fondato, insieme con Prof. Luciano Nocera, Crosstown, che raccoglie e analizza i dati per produrre notizie locali.

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