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“Una nuvola scintillante di frammenti” – Informazione "all digital" - Ordine Dei GiornalistiOrdine Dei Giornalisti

Ordine dei Giornalisti - Consiglio Nazionale

“Una nuvola scintillante di frammenti” – Informazione “all digital”

18/04/2024

immagine realizzata con IA Midjourney

REPORT 2024

“Una nuvola scintillante di frammenti”: l’informazione al tempo dei nuovi social e lo “spacchettamento” della professione.

Lelio Simi
Giornalista

Data l’ampiezza della trattazione, il testo è stato suddiviso in capitoli collegati ai pulsanti qui sotto.

“All digital” in italia modelli e format a confronto. Due casi di studio: Il Post e Fanpage.

Mentre la maggior parte dei quotidiani tradizionali (quelli con un’edizione cartacea di riferimento) hanno deciso per la loro versione web di adottare paywall e, come detto, in questi anni di renderli sempre più restrittivi verso il visitatore occasionale, di contro gli all digital hanno, invece, lasciato i loro contenuti fruibili gratuitamente. Una scelta strategica dovuta solo in parte al fatto di tentare di attrarre quei lettori “respinti” dai siti web dei quotidiani legacy ma anche, più in generale, dal voler rappresentare una tipologia di informazione alternativa (per taglio, approccio e format realizzati) a quella, appunto, dei giornali tradizionali e non limitarsi semplicemente ad essere una loro “copia” gratuita.

In questo quadro possono essere presi ad esempio due testate “solo digitali” che rappresentano due approcci diversi: Il Post, lanciato online nel 2010 secondo dati Audiweb/Audicom, a dicembre del 2023 aveva 319 mila utenti unici nel giorno medio: una base utenti che lo situa distante dagli oltre 3 milioni di utenti unici di testate come corriere.it e repubblica.it o dai 1,46 milioni di un’altra testata “solo digitale” come Fanpage ma vicino ai 361 mila del sole24ore.it e nettamente superiore a un sito di notizie molto più “anziano” come Dagospia (148 mila utenti unici) o a un sito del gruppo GEDI come l’Huffpost Italia (123 mila utenti unici).

“Cose spiegate bene” è il format lanciato dal Post che ne è diventato il tratto caratterizzante della sua linea editoriale — spesso già dichiarato nel titolo  — e che, in Italia, in questi ultimi anni ha avuto molto successo, diventando di fatto un “genere” giornalistico utilizzato e declinato in varie forme.

“Il Post – primo punto – spiega. Ogni suo pezzo articola, o se non altro si sforza di farlo, fatti e interpretazioni in modo fruibile e puntuale. Tutto è molto chiaro, le opinioni sono separate dagli eventi, c’è sempre un riassunto delle puntate precedenti. Una formula Google-friendly, che sembra fatta apposta per intercettare le domande sui motori di ricerca da parte di chi vuole capirci qualcosa, e che ha il pregio di saper tenere informato su quello che succede in Italia e nel mondo anche chi non si informa regolarmente (‘dai giornali non si capisce mai di cosa si parla, se non hai già seguito la vicenda’ è una delle lamentele che sento spesso da conoscenti disinnamorati della stampa, persone istruite e non necessariamente under 40. Ecco, a questo problema Il Post offre una soluzione)”[1].

Economicamente il giornale negli ultimi anni ha chiuso in attivo: nel 2021 per 659 mila euro e nel 2022 con 1,676 milioni di euro. I ricavi pubblicitari hanno pesato nel 2022 per il 15,5% del totale. E un altro 15% è riconducibile ad attività come la vendita della rivista “Cose spiegate bene” (distribuita nelle librerie), alle lezioni online e agli eventi, e alle partnership esterne.

Quello che invece oggi rappresenta la principale voce di ricavo è stata introdotta soltanto nel 2019: una formula di abbonamento volontario a sostegno del giornale che ha comunque deciso di lasciare la quasi totalità dei propri contenuti gratuiti (gli abbonati hanno come “premio” la possibilità di accedere ad alcuni contenuti in esclusiva — newsletter e podcast — e alcune feature come non vedere la pubblicità e sconti con partner commerciali).

È interessante notare che questa importante scelta strategica è avvenuta nove anni dopo il lancio del sito e che, dopo quattro anni dall’inizio dell’offerta di sottoscrizione a pagamento, i ricavi da abbonamento rappresentano oltre due terzi (il 69,5%) dei ricavi totali del Post, segnando una crescita sostanziale del loro peso nell’architettura dei ricavi (nel 2019 pesavano, infatti, solo il 14% e nel 2020 il 40%)[2].

Il format “spiegato bene” è stato per il Post (e in seguito per tutta una serie di progetti giornalistici online) uno strumento per stringere, e consolidare nel tempo, un patto di fiducia con i lettori sul quale, poi, si è operata una svolta nel modello di business — che ha dovuto prendere atto del generale calo dei ricavi pubblicitari per i giornali. Una scelta strategica che punta sulla crescita di quei lettori disposti a pagare un abbonamento per un progetto editoriale non semplicemente perché riconoscono che questo ha un costo per essere realizzato ma, soprattutto, perché percepiscono il valore di sostenere economicamente un’informazione affidabile e accurata. E questo, ha valore sottolineare, permette di puntare ai ricavi derivanti direttamente dei lettori non mettendo necessariamente il sito web — con pedaggio all’ingresso — come unico modo per realizzarli, ma può concretizzarsi anche grazie a tutto ciò che l’editore pubblica nelle diverse reti esterne al sito proprietario: la rete di newsletter gratuite, i podcast da ascoltare su Spotify o Apple Music, uno “spiegone” pubblicato su un social, o acquistando in libreria il libro/rivista (oggi Il Post è diventato anche un editore di libri di carta).

Questo non vuol dire certo che nei giornali tradizionali si sia persa la capacità di fare ottima informazione, ma va preso atto che “spiegare bene” le cose, porsi cioè l’obiettivo di rispondere con chiarezza a semplici “perché” dei lettori, in questi anni è diventato di fatto in Italia un format innovativo, un modo per riempire un vuoto informativo e attirare lettori delusi dagli organi di informazione tradizionali.

Se guardiamo a quanto emerge dai dati (forniti direttamente dal Post da una survey su campione dei suoi lettori) relativi alle fasce di età dei lettori e degli abbonati è interessante notare che, nel confronto tra peso percentuale di questi due valori, i lettori più giovani (18-24 anni) rappresentano il 35% del lettorato ma solo il 5% degli abbonati sostenitori, la fascia dei 25-34enni e quella dei 35-45enni invece raggiunge complessivamente il 40% del lettorato e il 60% degli abbonati.

È abbastanza ovvio sottolineare che, per forza di cose, il pubblico dei giovanissimi seppure interessante da conquistare, per stringere un patto di lunga durata e tentare di assicurarsi lettori anche nel futuro, oltre che essere un target pubblicitario di valore ha però dei limiti, rispetto alle fasce di età con maggiori disponibilità di spesa. E questo può rappresentare un problema nel caso che il progetto editoriale punti principalmente (se non quasi esclusivamente) nella fascia della cosiddetta Gen-Z (14-28 anni).

Tuttavia, è da notare come, da questi dati, emerga che sono le fasce di età immediatamente successiva ai giovanissimi quelle che contribuiscono in misura maggiore alla quota di abbonati paganti, proprio quella fascia di età che sta in misura maggiore abbandonando la lettura dei quotidiani, sia nella versione cartacea che digitale.

Sebbene questi dati siano — ricordiamo ancora — relativi a survey su campione di lettori relativi a una singola testata, possono essere presi come una testimonianza su come la fascia di età compresa tra i 25 e i 45 anni — oggi così “problematica” da conquistare e convertire in fedeli lettori paganti — possa essere coinvolta da un progetto editoriale.

Tra i giornali “solo digitali” italiani Fanpage è quello con l’audience online maggiore, tra 1,3 e 1,7 milioni di utenti unici nel giorno medio (dati Audicom/Audiweb riferiti al 2023) raccolta dal sito principale (fanpage.it) e la decina di siti verticali tematici. Il modello è quello degli all digital americani, in particolare BuzzFeed, al quale sicuramente si è guardato per la capacità di mettere a punto nuovi format (testuali e video) particolarmente performanti sui social media da proporre, poi, ad aziende come branded content facendone la principale voce di ricavo pubblicitario. Inoltre al modello BuzzFeed si è sicuramente guardato per la forte connotazione infotainment, una delle principali attività del suo editore CiaoPeople sono, infatti, le produzioni video (per i social) e televisive.

C’è un punto che ha valore sottolineare: con il declino, a livello di traffico generato verso i giornali, dei social composti prevalentemente da testo e immagini statiche (come Facebook e Twitter, ora X) e l’ascesa invece di quelli prevalentemente video (come Instagram e TikTok) nei quali con l’utente si struttura un rapporto da broadcaster (io trasmetto, tu guardi), dove nel news feed si susseguono automaticamente contenuti scelti dall’algoritmo, in una sorta di replica del palinsesto dei canali televisivi lineari, sono i contenuti di intrattenimento ad emergere. In particolare, con una piattaforma come TikTok (oggi così utilizzata e imitata dalle altre piattaforme) dove, come è stato fatto notare, si replica una fruizione sostanzialmente televisiva, non tanto “come formato, ma come funzione: un servizio gratuito, passivo, a basso impegno mentale che, a noi della generazione X [quella cresciuta senza social e davanti al televisore], faceva semplicemente trascorrere il tempo allontanando la noia. Non dovevamo scegliere, solo accendere, e fare zapping”[3].

Un elemento fondamentale per editori come Ciaopeople che hanno scelto di non utilizzare paywall e che quindi devono puntare tutto sul branded content: sono i contenuti entertainment ad essere oggi utilizzati per le collaborazioni con le aziende e i finanziatori pubblicitari, che — seppure rivisti e corretti per le piattaforme digitali — guardano decisamente più ai programmi di successo della televisione generalista (fiction, programmi di satira o talk show) che non ad articoli o reportage giornalistici da trasformare in nuovi formati pubblicitari come promesso dal cosiddetto brand journalism che in questi anni non è riuscito ad essere all’altezza delle aspettative economiche degli editori [4].

Un elemento questo che ha contribuito in modo fondamentale al fallimento in campo giornalistico del “modello BuzzFeed” tanto che il portale americano ha deciso di chiudere definitivamente la sua redazione (che nel 2020 aveva vinto un premio Pulitzer) e concentrarsi solo sull’intrattenimento. Una scelta che, per fortuna, non ha fatto Ciaopeople con Fanpage che resta centrale nel modello di business dell’editore, grazie anche a una distribuzione dei lettori omogenea nelle diverse fasce di età con gli under 35 intorno al 25%, la fascia 35-54 anni al 40% e gli over 55enni al 35% (fonte Audiweb forniti dall’editore). Un punto di forza per un sito di notizie generalista che punta ad attrarre la più ampia gamma possibile di investitori pubblicitari.

NOTE

[1] Anna Momigliano, Cos’è il Post, spiegato bene
[2] Tutti i dati economici hanno come fonte lo stesso Post che li ha pubblicati sul proprio sito.
[3] Gianluca Diegoli, TikTok come Televisione, Link Idee per la tv.
[4] Lelio Simi Perché spesso il brand journalism non funziona, Link Idee per la TV

 

LELIO SIMI

Giornalista, ha iniziato nella carta stampata dove è diventato professionista, si occupa di informazione e Internet dal 2001 in uno dei primi network di portali online di informazione in Italia. Si occupa principalmente di innovazione, strategie e modelli di business editoriali raccontando, in particolare, la profonda trasformazione avvenuta nell’industria dei media in questi anni attraverso reportage e inchieste pubblicate— tra gli altri — da Il Manifesto, Pagina 99, Link, Eastwest, Altreconomia, L’Essenziale. È stato uno dei fondatori del gruppo di lavoro DataMediaHub, una delle prime esperienze di data-journalism in Italia, nella quale si è dedicato in particolare all’analisi  dei dati economici dell’industria italiana dei giornali. È uno degli autori dell’antologia “Datacrazia” (D Editore, 2018), nel 2021 ha pubblicato per Hoepli “#Mediastorm – Il nuovo ordine mondiale dei media”. #Mediastorm è anche la sua newsletter.

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