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Uso dell’intelligenza artificiale nelle redazioni italiane
Paolo Cagnan
Giornalista, Vicedirettore di Nord Est Multimedia Spa
Che fine farà il giornalismo, così come lo conosciamo oggi, con l’uso sempre più pronunciato dell’intelligenza artificiale: aumenterà o diminuirà la sua rilevanza? Bella domanda, verrebbe da dire. Cambierà radicalmente il modo di produrre informazione: di questo sembrano tutti convinti, mentre è sul “come” che i pareri e le previsioni differiscono anche nettamente. Non c’è solo la polarizzazione emotiva tra spaventati ed entusiasti. Ci sono i contesti di riferimento, i budget aziendali, le dimensioni delle redazioni, i mercati diversificati, i modelli di business. Tutto si tiene, in un insieme complesso che andremo qui a raccontare. Se confrontiamo fonti autorevoli come i report del Reuters Institute, il Digital News Report Italia, le previsioni di FT Strategies e Nieman Lab’s, l’Emerging Tech Trend Report del Future Today Institute, appare chiaro come i nuovi ecosistemi digitali trasformeranno anche i flussi di lavoro giornalistici.
Secondo le previsioni più ottimistiche, le macchine faranno i lavori noiosi al posto nostro, e noi potremo in qualche modo riappropriarci della nostra professione. Saremo in grado di spaziare molto più liberamente tra formati diversi (parola scritta, audio, video) e di trovare notizie, connessioni, dati storici come mai prima d’ora, grazie a una lettura incrociata di fonti e di dati pubblici sempre più copiosi e accessibili.
Il fronte più pessimista teme una sorta di repulisti degli editori, un sistema machine-centered in cui molti giornalisti saranno semplicemente sostituiti: perché ne basteranno molti meno. Oppure, e questo è il punto, perché ci sarà una sorta di selezione darwiniana che cambierà radicalmente il nostro modo di lavorare e di approcciarci alla realtà. Il caro, vecchio mestiere con strumenti nuovi, e diversi.
La sfida delle Big Tech si sposta sul campo dei motori di ricerca del futuro: secondo alcuni osservatori, già oggi alcune chatbot costruite con i LLM[1] performano meglio delle ricerche ordinarie su Google. Avremo più motori di ricerca; più verticali, più conversazionali. La battaglia per la conquista di un link, volendo semplificare, sarà presto un banco di prova dei rapporti tra editori e colossi tecnologici.
“Io vedo un cambio di paradigma epocale” dice Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, “dove i mash-up aggreganti delle IA integrate rischieranno di rispondere perfettamente alle esigenze sempre più puntuali di chi le interrogherà”.
Ragionare in termini di link potrebbe essere già considerato desueto, perché con la crescita esponenziale dei comandi vocali la stessa ricerca di informazioni cambierà presto pelle, riducendo in maniera importante il traffico organico sui siti di informazione.
Le media companies dovranno trovare alleanze profittevoli (pochi accordi, sinora, lo sono stati[2]), oppure fare da sé. Le news ordinarie, semplice materia prima, rischiano di non essere sufficienti a supportare, da sole, un modello di business. Cresceranno giocoforza gli sforzi orientati verso i ricavi ancillari[3], ossia l’insieme dei profitti derivanti da attività parallele come eventi, programmi di affiliazioni, attività di formazione.
I punti chiave
Il rapporto tra il mondo dell’informazione italiana e l’intelligenza artificiale è in continua evoluzione, senza l’accelerazione da molti pronosticata. Il tavolo di confronto FIEG-FNSI sul nuovo contratto evidenzia visioni piuttosto distanti, che non favoriscono certo fughe in avanti.
La corsa degli editori all’uso della IA non sembra poi così sfrenata. Alcuni tra di loro hanno iniziato a ottimizzare alcuni processi interni (“back-end automation”), con l’obiettivo di risparmiare sui costi legati ai fornitori. Risparmiare sui giornalisti, ossia tagliare le piante organiche sostituendo gradualmente i redattori con le macchine, è una spada di Damocle apparentemente lontana ma tutt’altro che inverosimile, a tendere.
Soprattutto nelle aziende più grandi e strutturate sono stati costituiti team di sviluppo per delineare una strategia che, quasi ovunque, segue un doppio corno: prodotti per i giornalisti, prodotti per i lettori.
Rispetto al fronte interno, appare evidente che i giornalisti debbano essere dotati di una nuova “cassetta degli attrezzi”, ma soprattutto abbiano bisogno di una formazione continua: qui siamo ancora parecchio indietro, malgrado (o a causa) la bolla di offerta sia didattica, sia di strumenti. Per ora, la faccenda riguarda un numero molto limitato di professionisti, che sperimenta o utilizza già funzioni specifiche di IA compilativa, ma anche generativa. Gli assistenti di IA verranno sempre più integrati nei sistemi editoriali[4] e ciò ne consentirà un utilizzo più strutturato, rapido ed efficace.
Chi si serve della IA generativa ha quasi sempre adottato e reso pubblico un codice etico di autodisciplina che si basa sul controllo umano dall’inizio al termine del percorso, quale esso sia.
Quanto ai lettori, che in verità andrebbero semanticamente ridefiniti (perché leggono, vedono, ascoltano), le aziende stanno immaginando lo sviluppo di prodotti che tengano conto delle nuove possibilità d’interfaccia, soprattutto in chiave di personalizzazione dei formati. Le media companies più avanzate sul fronte delle IA sanno bene che l’utilizzo di nuovi chatbot consentirà l’accesso a informazioni customizzate, in generale a servizi sempre più tarati sulla profilazione e sulla user experience.
La redditività reale dei modelli di business, dal paywall dinamico ad altre forme di abbonamenti, è testata da algoritmi ancora molto costosi che non tutti gli editori possono permettersi.
Ci sono utilizzi di IA già abbastanza diffusi in ambiti specifici, da quello delle traduzioni al mondo dell’audio, con grandi differenze nell’uso pratico (ed etico) dei nuovi strumenti: si oscilla tra un certo approccio “facile” e velleitario a una progettualità più calibrata, credibile anche agli occhi delle audiences. Sono già automatizzati compiti come la pubblicazione sulle piattaforme social, la moderazione dei commenti, la creazione di newsletter di routine. Aumenta l’utilizzo di software per classificare e organizzare materiali e documenti, per trovare correlazioni, per incrociare fonti diverse. Anche il datajournalism si avvantaggia di nuovi tool specifici.
Risparmiare e ottimizzare
Proviamo a partire da qui: cosa vuole l’editore? La risposta dritta sembrerebbe duplice: risparmiare e ottimizzare, a partire dagli utilizzi di agenti IA che consentono di gestire in autonomia e con spese di molto inferiori al presente una serie di funzioni di back office, dalla contabilità interna alle banche dati dei collaboratori. Costose piattaforme gestite da fornitori esterni e progettate per la vendita, l’assistenza, il marketing potrebbero essere presto rimpiazzate con software di automazione spinta. Con quali esiti, è una scommessa aperta.
Rispetto all’uso delle IA in redazione, la situazione è ancora molto liquida e non può prescindere dalla dimensione della testata di riferimento, dalle policy aziendali sull’uso di questi strumenti, dai finanziamenti in termini di tecnologie e capitale umano, dalle linee guida editoriali. Nessun corpo redazionale potrebbe saltare questi prerequisiti, a meno di non innestare – cosa che da qualche parte accade – una sorta di “darkflow”, un flusso di lavoro fatto di sperimentazioni non autorizzate e non dichiarate, di cui non vengono messi a conoscenza né i lettori, né i vertici aziendali stessi.
L’evoluzione tecnologica porterà a significativi cambiamenti in molti settori: organizzazione, gestione del personale, modelli di business, sviluppo di prodotti. Dalla marcatura digitale dei contenuti protetti dal copyright al paywall dinamico sino alla gestione del CRM (Customer relationship management, diciamo la filiera d’interazione tra l’azienda e i clienti già acquisiti), una serie di funzioni prima semplicemente inesistenti, complicate o farraginose si riveleranno alla portata di molti, se non di tutti.
Diverse aziende stanno già utilizzando o sperimentando i nuovi sistemi di profilazione gestiti dalla IA che analizzano la propensione ad abbonarsi, per poi “reagire” con piani tariffari e di offerta sempre più personalizzati. Questi strumenti saranno sempre più efficienti.
A proposito di IA a supporto dell’organizzazione del lavoro: ANSA – spiega il CEO Stefano De Alessandri – ha attivato una serie di best practice su processi d’automazione della parte classificativa, essenziale per una agenzia di stampa: “Abbiamo accordi di partnership con ottanta altre società, che producono giornalmente 20 mila lanci in 17 lingue diverse”. Come funzioni la cosa, lo spiega Alessandro Barberi, capo Operations: “Il primo step è stato gestire i pacchetti dei contenuti d’archivio creando un formato tecnico comune, per avere una banca dati omogenea. Poi abbiamo iniziato a categorizzare questi materiali per poterne estrarre quelle che chiamiamo entità di riferimento: persone, luoghi, organizzazioni. Il sistema, a quel punto, traduce in italiano una selezione dei take di altre agenzie, cercando di riprodurre il nostro stile. Infine, entra in campo il lavoro redazionale: i giornalisti vedono il flusso all’interno del sistema editoriale, lo esaminano, scelgono ciò che trovano interessante e lavorano i lanci prima di immetterli in rete”.
Le media companies sostanzialmente ferme lo sono per svariati motivi. Per le loro ridotte dimensioni. Per una bassa spinta all’innovazione. Perché non hanno la convinzione che si tratti di un passaggio imprescindibile. Perché non hanno il budget (o le capacità) di costruire una squadra a sostegno di una strategia sui nuovi prodotti. Perché hanno in corso stati di crisi che prevedono accordi FIEG-FNSI che inibiscono “l’introduzione di meccanismi di intelligenza artificiale generativa sostitutiva dei contenuti prodotti dalla redazione”.
I prerequisiti, in realtà, non sono pochi: crederci, avere le idee chiare sugli obiettivi di massima, destinare un budget, costruire un percorso condiviso. Una delle parole chiave è “integrazione” e vale per i sistemi editoriali, così come per le risorse umane.
“Al momento non vedo un rapporto convincente di costi e benefici tra impegno e risultato”, dice il direttore editoriale del Post, Luca Sofri, che aggiunge: “Ci investirei molto, anche a livello sperimentale, se avessi un progetto che parte da zero, o quasi. Oppure, se potessi creare uno spinoff dedicato. Per noi, ancora oggi, l’artigianato umano resta centrale nella produzione di contenuti”.
L’integrazione di uomini e mezzi
Siamo dentro alla bolla delle IA. Lo si può affermare sulla scorta del numero di prodotti immessi sul mercato, del loro effettivo valore, della loro (scarsa) durevolezza nel tempo. Per non parlare dei corsi e delle Accademy per non restare indietro, corsi che – quasi su ogni piattaforma – sfruttano una nuova FOMO (Fear of Missing Out), la paura di restare tagliati fuori.
Ogni giorno, soprattutto su LinkedIn, qualcuno suggerisce i 100 tool imperdibili. Sono software che consentono di “fare cose”. Sono tanti, tantissimi. Ed è impossibile provarli tutti: mancano sia il tempo, sia un budget adeguato. Nell’attuale terra di mezzo, ci sono giornalisti che prendono appunti a mano, che poi trasferiscono su computer, per poi comporre un articolo; e ce ne sono altri che registrano conversazioni o riunioni con strumenti di IA, che ne ottengono la sintesi e che poi la rielaborano: un “utile grezzo”. Questi due mondi convivono, e probabilmente lo faranno ancora per qualche tempo. Perché la prima modalità ceda alla seconda, occorrono alcuni passaggi essenziali: una cultura digitale che non demonizzi l’uso della IA, una capacità critica di capire cosa-serve-a-cosa e un utilizzo ricorrente che dimostri i vantaggi in termini di efficienza e risparmio di tempo.
Molte delle personas sentite per questo rapporto – quasi una trentina – ritengono che l’uso quasi randomico di questi tool sia una pratica da abbandonare in favore di una scelta più ristretta, mirata, ma soprattutto integrata. Eccola qui, la nostra parola chiave. E l’integrazione riguarda i sistemi editoriali. Perché un conto è rimbalzare compulsivamente da un luogo (digitale) all’altro, un conto è avere un unico workflow, un flusso di lavoro che consenta di “trovare le cose”, rapidamente e senza perdersi.
Il gruppo Monrif, spiega Michela Colamussi che ne è Director of Transition to Digital and Innovation, ha creato nel giugno dello scorso anno Ai-Light[5], una estensione di chrome “pensata per i nostri giornalisti, con una interfaccia semplice. Abbiamo scelto di investire su un nostro prodotto per governare il processo e fare salire a bordo le redazioni”.
Il gruppo ha creato una commissione interna per accompagnare il progetto, dall’ideazione alla fase di testing. All’incertezza iniziale ha fatto seguito un uso sempre più frequente del tool, che nel tempo potrà a sua volta migliorare le prestazioni, man mano che si amplierà la platea di utilizzatori. Allo stordimento iniziale ha fatto seguito un uso sempre più frequente.
Ai-Light è costruito con sistemi semplici, integrati nel CMS e autoesplicativi, tanto che il software viene offerto sotto forma di licenza a terze parti, come editori più piccoli che non abbiano team strutturati: “I vantaggi – riassume Colamussi – sono che scavalca il disorientamento da troppi strumenti, è integrato nel sistema di content publishing ed è alla portata di tutti”.
I team di sviluppo e le chatbot al servizio dell’utente
Integrazione di sistemi, ma anche di persone. Non è facile comporre un nuovo management, soprattutto per le aziende meno grandi e meno strutturate. Si tratta di capire quali professionalità servono, per quali scopi. Mancare il bersaglio è molto più facile di quanto si pensi. Diverse testate, in realtà, hanno già da tempo gruppi integrati e multidisciplinari, orientati soprattutto allo sviluppo di prodotti e servizi. Da chi sono formati? La composizione varia, ma in linea di massima non mancano mai gli ingegneri e gli sviluppatori, affiancati a manager interni, al marketing, all’IT, alla direzione commerciale. Più i giornalisti responsabili del digitale, ovviamente.
Una delle chiavi di sviluppo è la creazione di chatbot o agenti AI (qui la differenza) al servizio delle redazioni, dell’utenza o di entrambi, in forma diversificata.
Ask the Post AI, il chatbot del Washington Post, è un buon esempio da cui partire. L’utente dialoga con il Post, con una interfaccia che propone una serie di Topics sotto forma di domande a cui fornisce risposta attingendo dal proprio archivio. Ma: “This is an experiment”.
Il gruppo RCS, come spiega il responsabile del sito del Corriere Davide Casati, ha introdotto una novità che riguarda la app di Economia (spinoff digitale dell’omonimo supplemento cartaceo): un assistente virtuale integrato all’archivio risponde alle domande dell’utenza. Grazie all’ausilio dell’intelligenza artificiale di OpenAI, vengono setacciati i materiali per permettere di trovare quelli più coerenti con la propria richiesta.
Il Sole 24 Ore – spiega Luca Salvioli, responsabile nuovi formati e Lab24 – sta seguendo un progetto internazionale per la creazione di una chatbot che interroghi le banche dati pubbliche assieme a Bloomberg, Washington Post, India Today e London School of Economics. L’obiettivo è un processo automatizzato di estrazione dati, ma che sia anche in grado di andare oltre: creando grafici, individuando trend, fornendo spunti giornalistici.
Più prosaicamente, un prodotto storico del Sole come “L’esperto risponde” ora si avvale… dell’aiuto da casa: in questo caso la IA si trasforma in una sorta di segreteria interna a disposizione del professionista che dialoga con i lettori, spiegando loro i sistemi normativi, e lo fa accorpando quesiti o recuperando risposte dall’archivio.
“Noi stiamo sviluppando un agente AI, in modalità RAG, che lavora sui nostri contenuti (MF, agenzia MF Newswires, Class CNBC) e che sarà in grado di offrire risposte conversazionali articolate sotto forma di news, analisi e report” racconta Roberto Bernabò, Chief digital devolepment manager di Class Editori.
Il gruppo Athesis, spiega il suo “Senior Digital Editorial Group” Nicola Negrin, è stato coinvolto da WAN-IFRA 16 (l’Associazione mondiale della carta stampata) nella creazione di un prototipo in collaborazione con la società Fathm. Le aziende editoriali selezionate come tester sono una decina: “Nel nostro caso è stato deciso di creare un assistente IA che aiuti i giornalisti a svolgere ruoli di routine; lo sviluppo è ancora in fase embrionale mentre l’introduzione vera e propria è prevista a regime entro il 2025. L’assistente è ovviamente un primo passo: contestualmente stiamo studiando la possibilità di introdurre una chatbot che consenta agli utenti di accedere in maniera più semplice e immediata all’archivio della testata di riferimento”.
Scendendo di livello, l’utilizzo della IA compilativa è in atto da anni in molte realtà editoriali e non sembra spaventare nessuno: un po’ perché gli strumenti di lavoro diventati ordinari si danno per scontati, dopo un po’ di tempo; un po’ perché nessuno disdegna la tecnologia che semplifica la vita (anziché complicarla, il che accade abbastanza di frequente); un po’, soprattutto, perché non rischia di togliere il lavoro ai giornalisti. Della cosiddetta GEN-AI diremo qui che chi ha iniziato a usarla segue (o dichiara di seguire) tre principi base.
Il primo è riassunto nel motto “Human in the loop” (noto anche come principio HITL) e prevede che all’inizio e alla fine del percorso, in un cerchio (loop) che si chiude, vi sia sempre il controllo umano. Sì, insomma, le macchine sono eterodirette e non decidono un bel niente. Per ora, almeno.
Il secondo è il concetto della trasparenza verso i lettori, gli utenti, i clienti, gli abbonati paganti. Quelli che ci leggono, ci ascoltano, ci vedono. Che ognuno chiama in modi diversi a seconda delle attitudini e delle piattaforme distributive, ma basta capirsi: “Vi diciamo sempre come e quando abbiamo fatto ricorso alla IA, per un patto di trasparenza”. Tra gli editori che si sono dotati di un Codice di autodisciplina figurano il Gruppo Sole 24 Ore[6] e Adnkronos[7].
Il terzo è che tutto, all’inizio, è faticoso e dispersivo: chi molla, lo fa perché vede un rapporto squilibrato tra costi e benefici. Ma chi va avanti, e impara a districarsi, poi guadagna tempo e impara a sfruttare – in un campo deontologico da riempire – molte più risorse.
Fuori dai confini
Al Festival 2024 di JournalismAI, lo spinoff della London School of Economics dedicato proprio alle nuove frontiere dell’informazione digitale, sono stati presentati, per due giorni di fila, alcune decine di progetti.
Sono emerse alcune evidenze interessanti. La prima: la geografia delle media companies che fanno da apripista sta cambiando rapidamente: l’Europa, quella che abbiamo sempre considerato a trazione anteriore (il Guardian, i tedeschi con Axel Springer, gli olandesi, gli scandinavi) c’è sempre, ma inizia a cedere il passo ad aziende che arrivano dall’India, dall’Africa, dal Medio Oriente.
Un secondo, interessante aspetto impatta anche sullo scenario italiano: chi, in questo momento, costruisce nuovi percorsi fa parte di team integrati in cui la componente redazionale è spesso scarsamente rappresentata, se non in una ibridazione di funzioni, ossia “il giornalista che ne sa”. Ecco qualche job title, per capirci: Generative AI Lead, Product Manager, Head of Special Projects, Editor of Audio programming, Head of Data Visualisation, Science and Technology Editor, Head of Innovation, Head of Audience.
Siamo evidentemente nel campo delle nuove professioni, anche se molte di queste funzioni esistono (non dappertutto, evidentemente) già da molti anni. E cosa fanno queste persone, cosa hanno studiato, come si integrano con le redazioni? Le professioni più comuni sono queste: data scientist, architetti dell’informazione, manager di prodotto, editori, ricercatori, specialisti di tecnologie e processi di automazione. Certo, ci sono anche giornalisti: quelli investigativi, i fact checker, parecchi esponenti del mondo audio. E un po’ lo si capisce: chi ha più bisogno di strumenti che aiutino a setacciare una gran mole di dati, a cercare riscontri incrociati, a sfruttare le nuove piattaforme?
Il bisogno di formazione interna
C’è un grande bisogno di formazione permanente sulla materia. Qui si pone un tema di literacy, una nuova alfabetizzazione. Molti giornalisti temono di non essere (più) in grado di distinguere una notizia, una foto, un video vero da uno falso, ma soprattutto di perdersi nelle sabbie mobili della verosimiglianza, creata – spesso benissimo – da chi poi la sfrutta. Anche i giornalisti, soprattutto loro, devono saper distinguere le trappole, starne alla larga, denunciarle. La fretta, l’ansia da prestazione e i tranelli legati ai registri emotivi rischiano di provocare errori e svarioni (in prima battuta su siti e piattaforme social) che causano un danno reputazionale alla testata in questione, ma anche all’intera categoria.
Le aziende più strutturate possono avere i formatori al loro interno, ma nella maggior parte dei casi si fa ricorso a risorse esterne, ossia servendosi di società specializzate. Nel 2024 c’è stata una bolla di offerta. Alcune testate hanno iscritto propri giornalisti a sessioni rivelatesi molto scadenti sul piano delle docenze, o comunque inadeguate rispetto alle roboanti promesse di partenza.
I corsi come business non sono un obiettivo soltanto delle aziende che dialogano con il mondo dell’informazione digitale, ma anche delle stesse media companies. Queste ultime, quelle più grandi o comunque dotate di una certa struttura, stanno cercando di estrarre valore dalle scuole di formazione per esterni, offrendo approfondimenti di lunghezza variabile e svariati tematismi, tutti nel campo del giornalismo. Usano propri dipendenti come docenti, ma anche contributor esterni, o consulenti. I giornalisti che insegnano erano stati sinora perlopiù impiegati in altri luoghi: università, scuole di ogni ordine e grado, percorsi formativi dell’Ordine e così via. Ovviamente, per insegnare bisogna conoscere. E dunque, studiare. Tra le iniziative si segnalano RCS Academy, La Scuola del Fatto, i corsi del Post, la 24ORE Business School.
“Non esistono i trucchi per usare le IA, così come non esistono i 100 prompt da copia-incollare: l’unico metodo che funziona davvero è la personalizzazione” sostiene Alberto Puliafito, formatore esterno per Supercerchio: il modello denominato “AI @work” parte dal carotaggio dei bisogni aziendali – anche attraverso un sondaggio interno – per progettare il percorso con call 1:1, l’esame della formazione per funzioni aziendali, l’individuazione di aree di risparmio o di aumento produttività. L’idea di fondo è questa: a ciascuno il suo. Dal marketing al legal, dai social ai contenuti, dalla analisi dati alle risorse umane. Con un principio chiaro: “La sostituzione non è delle macchine verso gli umani, ma degli umani che sanno usare le macchine verso quelli che non le sanno usare. Formarsi è il primo passo per non essere sostituiti”.
“Senza un corretto inquadramento delle buone pratiche”, dice Simone Ceriotti, vicedirettore de ilfattoquotidiano.it, “si incorre facilmente in un doppio pregiudizio: da un lato, chi teme di essere sostituito da una macchina; dall’altro, chi ritiene che tutto questo non serva a nulla e che sia solo una perdita di tempo. I principi ispiratori dei test del nostro team multidisciplinare sono stati quelli di evitare le scorciatoie e affrontare la materia in assoluta trasparenza”.
Cosa ci puoi fare
Produrre una pura elencazione di cose che la IA può fare per i giornalisti non ha senso, non qui. Ma fornire un quadro generale può aiutare a comprendere lo scenario che abbiamo davanti.
Se si tratta di “scrivere per il web”, ossia di fare editing su più livelli, l’intelligenza artificiale può fare i titoli in chiave SEO e le url, può eseguire A/B testing per capire quale titolazione sia più efficace; può creare i riassunti in elenco puntato che in genere precedono un articolo lungo; può suddividere un testo in paragrafi, può occuparsi delle formattazioni e delle tag; può revisionare un testo o correggere i refusi. A un livello più generativo, e quindi oggetto di particolare attenzione e cautele, può riscrivere i comunicati, riassumere testi lunghi sulle misure da noi fornite; può creare schede, elenchi numerati (avete presente “Le cinque cose da sapere…”). E qui siamo al solo ausilio sulla scrittura di un articolo, perché se ci spostiamo più in là si possono fare molte altre cose, e più articolate. La IA si può usare per la ricerca delle fonti, per il fact checking, per la gestione di archivi e database, per il dialogo con le proprie audiences.
È possibile automatizzare diversi flussi di lavoro, dalla gestione delle piattaforme social alle newsletter più ordinarie. Così come si possono convertire file audio in video, file video in testuali, produrre video da un prompt (una “istruzione”), oppure creare audio articoli con voci sempre meno sintetiche.
Molti sottolineano l’utilizzo delle IA per le analisi di documenti lunghi o articolati: “Pensiamo alle classiche ordinanze di un tribunale – commenta Luca Zorloni, Head of editorial content di Wired Italia – che arrivano in un PDF fotografato. Una volta stampavamo e andavamo di evidenziatore, adesso le mettiamo su Pinpoint (uno strumento open source di Google) e le usiamo in mille modi. Oppure, l’estrazione dei dati salienti dal bilancio di una società. O ancora, il calcolo delle pensioni con i nuovi coefficienti”.
Un mondo fatato? Non sempre. Ancora Zorloni: “In un caso, abbiamo confrontato la risposta poco convincente di una chatbot con quella fornita da un suo competitor, trovando l’errore della prima. In un altro, ci siamo resi conto che, quando la IA non conosce la risposta, tende a inventarla. Una verifica di ogni risposta è sempre necessaria, come vuole la prassi del nostro mestiere”.
Per i data journalists si aprono sterminate praterie, anche se le competenze richieste per maneggiare le banche dati pubbliche non sono molto comuni, anzi. “Le macchine possono fare le cose che non sai fare da solo, oppure quelle più noiose” sintetizza Riccardo Saporiti (Il Sole24Ore, Wired, VareseNews), a partire dallo scraping, ossia l’estrazione dati dai vari siti. È possibile, ad esempio, scrivere codici che interroghino gli archivi e generino file CSV, ovvero fogli di calcolo che consentono di analizzare i dati.
Un esempio? I contenuti della piattaforma Eligendo sulle elezioni regionali. “Bisogna essere molto didascalici e seguire i procedimenti passo dopo passo, come se si trattasse di stare dietro a uno stagista bravissimo ma molto inesperto”, chiosa Saporiti. Un’attività resa necessaria dal fatto che dati come quelli elettorali non sono pubblicati in formato open data con tempistiche compatibili con quelle della cronaca.
Un’applicazione dell’IA adottata da ANSA è relativa ai video con la conversione del parlato in testo, sincronizzato, dotato di sottopancia con traduzione sia in italiano per la produzione video per il mercato nazionale, che in lingua straniera per il mercato estero.
Quali e quante sono le funzioni di automazione (o semi automazione) che fanno risparmiare tempo ai giornalisti, più che sostituirli?
“Abbiamo realizzato un tool per la moderazione dei commenti sulle piattaforme social” spiega Marco Sangalli, CEO di Socialbeat, tra le società che creano strumenti per le aziende editoriali. “Per cominciare, abbiamo definito la soglia d’intervento su tre opzioni-base: eliminare un commento, lanciare un alert a chi lo ha scritto (una sorta di cartellino giallo), accettarlo. Poi è stato creato uno score – diciamo un punteggio complessivo – che comprende gli elementi a rischio: insulti, razzismo, linguaggio volgare etc. Così impostato, il sistema interviene da solo, abbattendo il controllo umano all’otto per cento”.
Altra opzione percorribile è la pubblicazione automatizzata sulle piattaforme social. “In questo caso – spiega sempre Sangalli – il sistema legge le URL create dalla redazione e origina una catena di smistamento, sulla base di una griglia predefinita. Il software IA crea grafiche differenti a seconda dei contenuti, a esempio sport o cultura, e delle piattaforme. Prende decisioni autonome, su quando e come pubblicare, ma sulla base di una cadenza preimpostata. Cataloga i segnali degli utenti e sceglie cosa interessa loro, avendo presente lo storico delle views sul sito di riferimento”.
Ci sono avanzamenti tecnologici che possono favorire nuove forme di giornalismo. Alla Sesaab hanno recuperato l’archivio storico delle necrologie, lo hanno digitalizzato e consegnato alla IA con il risultato che ne è derivato un utilizzo promiscuo tra azienda, redazione e utenti. Un portale aperto – spiega l’ad, Enrico Franzini – che trova ed estrae i metadati; il nome, la foto, la data, il luogo. Seguendo anche l’evoluzione delle necrologie nel corso dei decenni, dagli anni Cinquanta ad oggi, una giornalista racconta da tempo, su carta, una serie di storie tratte dall’archivio, per gruppi di defunti: dai reduci di guerra, ai mutilati, ai nobili.
E il mondo dei podcast, e dell’audio in generale?
Chora News ha iniziato a usare l’intelligenza artificiale per le correzioni audio in post-produzione. Detto in parole povere, un tool specifico viene addestrato a clonare la voce di un autore. La ascolta in tutte le sue sfaccettature, sino a riprodurne fedelmente il timbro, la cadenza, le inflessioni.
“Ci è molto utile – spiega la direttrice, Francesca Milano – perché accade di cogliere errori o imperfezioni, e richiamare un autore per fargli pronunciare di nuovo una frase o due è davvero una perdita di tempo spesso inessenziale. Il software corregge dice “milioni” al posto di “miliardi”, cose così. E gli autori? “In genere restano impressionati dal risultato. Riascoltando la propria voce clonata, vi si riconoscono. Usiamo questo strumento per le correzioni su tutta la linea di produzione. È un criterio di efficienza, alla fine”.
C’è un altro utilizzo delle IA, nel campo delle traduzioni. Il podcast Black Box di Guido Brera, dedicato alla finanza, è stato convertito in inglese: a farlo non è stata una macchina, ma uno specialista in carne e ossa: “Non ci saremmo mai fidati della traduzione automatica, ancora troppo rischioso”. I testi passati dall’italiano all’inglese, però, sono stati dati in pasto alla IA che ha clonato la voce dell’autore nella lingua di Shakespeare. Qui si pone un tema interessante: è possibile sfondare mercati esteri con produzioni italiane, data la facilità di convertire audio (e scritti) da una lingua all’altra?
“La tecnologia semplifica – risponde Milano – ma il contenuto resta decisivo. Noi abbiamo fatto questa specifica operazione perché lo sponsor voleva posizionarsi anche all’estero, ma è difficile penetrare altri mercati. Molti dei nostri prodotti sono tarati sull’Italia e potrebbero non risultare poi così interessanti, che so, in Germania o Francia. Gli algoritmi delle piattaforme, in questo caso, ostacolano più che aiutare. Per sfondare all’estero servono storie forti, potenti. Mi viene in mente, per dire, una serie tivù sul caso Emanuela Orlandi che certo potrebbe avere un appeal anche fuori dal nostro Paese”.
Le traduzioni da una lingua all’altra: così facili, così fruibili rispetto al passato. Eppure, conviene andarci cauti. Senza controllo umano, si può rischiare grosso, anche legalmente. Non basta usare un buon programma per sfondare sui mercati esteri, magari con una selezione di pezzi “mirati”. Eppure, ci sono siti di importanti gruppi editoriali che traducono in quattro lingue, già oggi, senza una apparente strategia.
Massimo Russo, direttore editoriale di Hearst Italia – che a livello internazionale ha siglato un accordo con OpenAI – racconta una best practice del gruppo: “Noi prendiamo regolarmente gli articoli che hanno performato meglio in lingua madre sulle edizioni internazionali dei nostri siti, come Runner’s World in inglese, e li traduciamo anche con l’aiuto della IA con una supervisione completa: rivediamo, se serve modifichiamo, approviamo il testo finale”.
Ma la cosa interessante è un’altra: “Inseriamo nel testo un marcatore che consente a Google di riconoscere la traduzione come effetto della syndication multi-paese tra testate dello stesso editore e questo non solo non danneggia, a livello di risultati, il pezzo tradotto dall’inglese in italiano, ma di fatto gli assegna l’autorevolezza di origine sulla stessa ricerca degli utenti”.
Semplificando: la traduzione funziona. Sinora è difficile lavorare sui linguaggi verticali ma i sistemi sono in netto miglioramento: presto saranno in grado di interpretare al meglio anche termini specifici, dalla moda all’architettura.
Un utilizzo interessante e ibrido della IA è quello che ne ha fatto Gabriele Cruciata, co-autore del podcast “10 e 25 – La vera storia dietro alla strage di Bologna” prodotto da Slow News: “Abbiamo usato Pinpoint di Google per archiviare, incrociare ed esaminare una grande mole di documenti pubblici – spiega – e abbiamo trovato collegamenti molto interessanti, anche grazie ai filtri di ricerca avanzata. Ci saremmo probabilmente arrivati lo stesso, ma con grande difficoltà”. Non solo: coloro che hanno sostenuto la campagna di crowdfunding del podcast hanno avuto libero accesso alla documentazione completa usata dagli autori.
Massimo Mazzitelli, responsabile sviluppo digitale di SAE 30, spiega che un nuovo incubatore, SAE Digital Servizi, farà sinergie con startup innovative e gestirà la formazione dei propri giornalisti: “Avremo un nuovo sistema editoriale con IA integrata, mentre spingeremo un po’ di più su nuove iniziative come una web radio quasi automatizzata, che tradurrà in modalità audio i nostri articoli e i lanci d’agenzia”.
“Conversational”: dalla SEO alla AEO
Tra le previsioni forse più concordi per i prossimi mesi (parlare di anni risulta semplicemente velleitario) c’è quella dello sviluppo esponenziale della cosiddetta Conversational AI, che in realtà avrà una serie di applicazioni pratiche, le quali non riguarderanno il mondo dell’informazione, ma un ampio spettro della società. Ci sarà la concierge d’albergo virtuale che dialogherà con i clienti per comprenderne i bisogni e raccoglierne le lamentele; ci sarà un assistente medico che interrogherà i pazienti, con tanto di anamnesi di base ed elenco delle medicine, prima di passare la palla al dottore vero e proprio.
Già sono attive le prime chatbot che dialogano con i lettori, setacciano gli archivi, restituiscono contenuti on demand, seguendo la traccia della personalizzazione dell’offerta: ovvero, una di quelle strade a senso unico, dalle quali – a detta di molti – non si tornerà più indietro.
Andremo poi verso contenuti sempre più profilati e costruiti in chiave audience-centric, tarati cioè sul soddisfacimento di bisogni informativi scovati in mille modi, coprendo il gap tra domanda e offerta. Inoltre, l’utilizzo delle chatbot consentirà ai nuovi utenti di avere accesso a homepage customizzate, a notifiche puntuali, a servizi sempre più settati sulla profilazione 1:1.
Non solo: la rintracciabilità degli articoli attraverso le tecniche SEO, sinora decisiva quanto lo è stato Google come “monopolista delle ricerche”, potrebbe invecchiare male a fronte della AEO, acronimo di “Ask Engine Optimisation”. Perché ormai noi parliamo con i nostri device, si tratti del cellulare o di uno smart speaker. Ed è così che, sempre più spesso, troviamo le informazioni che cerchiamo: una metamorfosi che trasferisce le ricerche dalle parole chiave digitate sulla stringa di ricerca su Google – la cosiddetta query – ai comandi vocali. “Voice first”, profetizza qualcuno: gli agenti IA riconoscono il linguaggio naturale, lo interpretano e forniscono risposte rapide e puntuali.
Se da un lato i cronisti che sapranno usare la IA potranno scrivere nuove storie, trovare e confrontare dati sinora non accessibili, avendo accesso a database di grande ausilio per le correlazioni, dall’altro emergerà come contraltare una moltitudine di aggregatori di news mainstream, certo automatizzati, che rischiano di “bastare” ai lettori poco interessati al giornalismo di qualità, o poco propensi a pagare per averla. Sì, insomma: aumenterà a dismisura la cosiddetta ”AI slop”, la “sbobba artificiale”.
Meglio allacciare le cinture: turbolenza in arrivo.
NOTE
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[1] Data Masters, “LLM: cosa sono i modelli linguistici di grandi dimensioni”, 12 luglio 2024
[2] Nieman Lab, Rasmus Kleis Nielsen, “Publishers find the AI era not all that lucrative”, dicembre 2024
[3] Financial Times Strategies, Joanna Levesque ed altri, “Our 2025 predictions for News, Publishing and beyond”, gennaio 2025
[4] Twipe, Carlo Prato, “ Benefits and challenges of AI chatbots for news publishers”, 3 settembre 2024
[5] Quotidiano Nazionale, Redazione Economia, “Il Gruppo Monrif lancia Ai-Light: un nuovo tool di intelligenza artificiale a supporto della trasformazione digitale”, 18 giugno 2024
[6] Il Sole 24 Ore, “Il Sole 24 Ore primo gruppo editoriale italiano ad adottare un codice di autodisciplina sull’intelligenza artificiale”, 4 giugno 2024
[7] Adnkronos, “Intelligenza Artificiale, ecco il codice di autodisciplina adottato dall’Adnkronos”, 10 dicembre 2024
PAOLO CAGNAN
Paolo Cagnan, classe 1967, è Vicedirettore di Nord Est Multimedia Spa (NEM) con delega al Digitale e all’Integrazione multimediale.
È stato direttore della Gazzetta di Reggio, condirettore dei quotidiani veneti del gruppo GEDI e collaboratore dell’Espresso. Ha collaborato a diversi programmi RAI e prodotto libri, drammaturgie e podcast. Si occupa di digitale dal 1996 “e nonostante questo – dice – ancora non ci ho capito niente”.
Tra il 2021 e il 2022 ha impiantato una Digital Academy interna ai quotidiani locali ora acquisiti da NEM, con 23 incontri tra corsi accreditati ODG e dialoghi sul futuro.
Quando sembra che parli da solo, è possibile, ma è più facile che stia litigando con una qualche chatbot.
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