Autore: Anthony Santilli-Enrico Serventi Longhi (a cura di)
Editore: All Around (2020), pag.412, Euro 18,00
I contributi raccolti in questo volume sono le risposte a due domande che il lettore si pone nell’affrontare l’esame dei singoli interventi: Come si è articolato il rapporto tra pratiche di scrittura e sistemi coercitivi nel mondo contemporaneo? Secondo quali modalità le esperienze dello scritto – dal giornalismo sino alla pratica diaristica, dalla stampa clandestina sino a quella di prigionia, passando per il linguaggio satirico – sono state influenzate dalle misure costrittive dalle quali hanno tentato di divincolarsi e viceversa?
Le oltre quattrocento pagine del libro esplorano diverse forme detentive: dagli istituti carcerari all’internamento civile e militare, passando per le isole di confino e ai luoghi di esilio volontario, in ambiti spaziali anche lontani (dall’Europa agli Stati Uniti, dalla Turchia al Mediterraneo arabo-islamico).
Dopo le prefazioni di Serventi Longhi (Segni di libertà negli inferni dei vivi) e di Santilli (Problemi di metodo per una storia sociale della scrittura “coatta”) il volume si suddivide in sei sezioni: Prigionia e Guerra Totale; Confino senza confini; Biografie fra carcere e clandestinità; Internamenti e Guerra Mondo; Scrittura coatta nel Mediterraneo coloniale e postcoloniale; L’informazione domani, con il saggio conclusivo di Laura Cesana Trovellesi sulla “Società dell’informazione e le prigioni di vetro”, ovvero sul giornalismo e i suoi nemici. In epilogo al suo intervento, Laura Trovellesi precisa che quello dell’informazione non è naturalmente l’unico settore della vita democratica che risente della crisi profonda che investe le società avanzate, ma i media hanno un ruolo fondamentale nella testimonianza del tempo presente.
La scelta di un arco temporale vasto, che abbraccia tutto il Novecento e il XXI secolo, è determinata dai curatori per riflettere sulla continuità e sui momenti di rottura tra processi storici, come i due conflitti mondiali e i regimi totalitari e autoritari, nonché i fronti di opposizione nati in loro risposta.
Per quanto concerne i due conflitti mondiali, Giuseppe Ferraro in “La stampa di prigionia nella grande guerra” presenta due realtà pubblicistiche del campo ungherese di Dunaszerdahely: “L’Attesa” e il “Gazzettino di Wonbaraccopoli”. Il suo contributo presenta una dimensione giornalistica condivisa tra la comunità di prigionieri e capace perfino di esprimere ironia e leggerezza, pur in un contesto drammatico. I redattori del “Gazzettino” chiedevano ai collaboratori di curare il più possibile i propri scritti perché “il giornale possa essere letto con piacere e tenuto come uno dei nostri Ricordi di Prigionia”. Mentre Luciano Zani, nella sua testimonianza sui campi di prigionia, ricorda il giornale “Italia” (Notiziario settimanale degli ufficiali italiani prigionieri di guerra nel campo di Ellwangen), uscito per nove numeri, dal 5 maggio al 30 giugno 1918. La censura tedesca, pare per intervento diretto di Berlino, aveva ordinato di cambiare il titolo della testata e l’impostazione del giornale, pena la sua soppressione. I prigionieri italiani decisero di non arrendersi alle “ingiunzioni intollerabili della censura”, come è ricordato in una “Memoria” su quell’esperienza di prigionia. Zani ricorda anche che in molti lager i prigionieri hanno dato vita a fogli o bollettini, per lo più manoscritti, poi poligrafati e distribuiti a mano, che svolsero la funzione di aggregazione e di riferimento per tutte le attività del campo (culturali, sportive e assistenziali).
Un esempio paradigmatico su ciò che ha rappresentato il confino, relativamente alla scrittura in regime di restrizione della libertà personale; è il “Manifesto di Ventotene”, la cui genesi e diffusione sono qui trattate da Antonello Braga. Significativa, poi, è l’esperienza di internamento nella Francia meridionale degli esuli repubblicani dalla Spagna, che fu l’occasione d’incontro per militanti di diverse appartenenze nazionali e di sedimentazione di una cultura “resistenziale”, anche attraverso la comune esperienza di detenzione. I giornali murali dei campi di Gurs e Saint Cyprien sono testimonianza di un sentimento di fratellanza che travalicava i confini nazionali, ma che nello stesso tempo divenne fondamento anche patriottico delle esperienze partigiane che dopo pochi anni contribuirono a liberare l’Europa dal nazifascismo.
Il contributo di Serventi Longhi a questo libro va oltre i confini continentali, concentrandosi sull’esperienza dei giornalisti italiani internati dagli Stati Uniti, dopo l’attacco subito a Pearl Harbour e sul loro ingresso da belligeranti nella guerra-mondo. Quello del coinvolgimento bellico dei prigionieri fu un provvedimento dalle molteplici sfaccettature: servì da arma per modificare l’atteggiamento della stampa italo-americana; funzionò anche da strumento di stabilizzazione del fronte interno.
Al centro del contributo di Luciano Zani, inoltre, c’è un giornalista de “La Stampa”, Guido Tonella, che – negli anni successivi all’8 settembre 1943 – diresse di fatto l’unica voce coeva (“La Voce della Patria”), capace di raccontare le vicissitudini concentrazionarie degli Internati militari italiani (650mila) e la loro assegnazione come forza lavoro nell’economia di guerra tedesca. L’esperienza di Tonella e del suo periodico – scrive Zani – esprime gran parte delle contraddizioni insolubili e, talvolta, insensate in cui cadde la Rsi, nonché gli scontri interni e le differenti posizioni nei riguardi degli Internati italiani, rivela, nello stesso tempo, l’importanza della pratica giornalistica come canale d’informazione e di “verità”, anche in un contesto intimidatorio, censorio e manipolativo.
Nella presentazione, Vittorio Roidi ricorda che il giornalismo è informazione che vive nella libertà. Eppure ci sono pagine di intellettuali, di politici, di giornalisti che sono state scritte durante mesi e anni trascorsi nella solitudine delle prigioni.
La Fondazione intitolata a Paolo Murialdi, insieme con l’Università la “Sapienza” e con il sostegno del Centro di ricerca e documentazione sul confino politico e la detenzione delle isole di Ventotene e Santo Stefano, ha inteso dare il proprio contributo all’analisi di questi scritti. Ventotene, scrive Roidi, era il luogo più significativo, il più nobile, ove riunirsi per discutere un tema tanto arduo e delicato. Ed è stato fatto con un gruppo di storici che avevano letto e studiato le riflessioni e i racconti di tanti uomini che, pur perseguitati e reclusi da regimi totalitari, avevano saputo difendere le proprie convinzioni e scrivere cose importanti per la vita dell’Europa libera e unita.
“In un’epoca in cui da più parti – sottolinea Roidi – ancora si pongono ostacoli alla libera informazione, attraverso intimidazioni e bavagli, gli scritti dal carcere costituiscono un autentico urlo di libertà, che nessuno ha potuto nè riuscirà a soffocare”.