di Laura Trovellesi Cesana, vice presidente del Consiglio di disciplina nazionale
Consiglio nazionale Roma, lì 6 luglio 2021
Cari colleghi,
del Presidente Faustini mi ha subito colpito quanto profondo, vivido, attuale, fosse il suo modo di testimoniare la vocazione di giornalista, prima ancora che la professione. Una vocazione che poi ho ritrovato partecipata in ogni sfaccettatura della sua personalità: da quella militante, nelle fucine dove l’informazione nasce e si fa fonte, a quella di studioso che si interpella sul senso intrinsecamente democratico dell’informazione libera, all’impegno nelle strutture di rappresentanza ordinistica, alla ricerca sempre in divenire sull’etica, al delicato tema della sua declinazione nell’esercizio dell’autodichia dell’organo nazionale di disciplina, una giurisdizione domestica che abbiamo condiviso insieme negli ultimi anni, avvertendo il peso dell’esercizio dello ius puniendi nei confronti di colleghi e la difficile responsabilità del giudice.
Mi è stato conferito questo compito, che accolgo con sentimento commosso e onorato, proprio in ragione del tempo condiviso sulle carte del Consiglio di disciplina. Scriveva Gianni Faustini nel 1990, all’epoca in cui era segretario dell’Ordine nazionale dei Giornalisti: Un vantaggio, rispetto alle altre categorie, è la coincidenza che si ha per il giornalista tra etica e professionalità. La professione dovrebbe essere la ricerca e la trasmissione di quella verità che onestamente riesco a conoscere, questa ricerca onesta è il fondamento della deontologia. Etica e professionalità sono tutt’uno.
La dimensione dell’etica, dunque, non può staccarsi dalla professionalità ma deve farsi tangibile attraverso la ricerca dell’onestà che resta il paradigma, l’essenza stessa dell’essere giornalista, dunque cercatore di verità.
Ma per Faustini la verità è soprattutto la verità dell’uomo: la sua incomprimibile cifra umana caratterizzò il suo approccio non solo nei contesti di lavoro e nelle relazioni interpersonali, segnate da uno stile e da un galantomismo ormai rari, ma anche nell’esercizio della sua curiosità del mondo e delle culture.
E ciò lo ha reso speciale.
Un’attenzione particolare la riservò alla declinazione giuridica dell’informazione, vissuta come diritto fondamentale. Paradigmatica appare, in questo senso quanto affidò nel 1995 alla prefazione al volume del giurista Giuseppe Corasaniti dedicato al Diritto dell’informazione.
Nel constatare come fino ad allora l’evoluzione dell’attività giornalistica si fosse già presentata continua e vorticosa nei suoi passaggi dal modulo artigianale a quello multimediale scriveva: Un dato ci sia consentito rilevare: al centro del sistema è e rimane il giornalista, la sua autonomia e lealtà che da sole danno credibilità e affidamento. Il cittadino, oggi più che mai, di questo ha bisogno e questo richiede, soprattutto a chi, attraverso i mass media, ai vari livelli in ogni specifica specializzazione e nella differenziazione di funzioni, contribuisce a dare sostanza e voce a questa nuova società dell’informazione.
In lui era forte e orgogliosa la rivendicazione dell’autonomia nell’esercizio della missione del giornalista. Un lascito che è un monito in questo nuovo tempo della nostra professione che deve difendersi da numerosi viluppi che rischiano di strangolarla: dai tentativi che una certa concezione cesaristica della politica può mettere in atto non rispettando l’autonomia della professione giornalistica e l’indipendenza dell’informazione; dalle disfunzioni generate da ruvide concentrazioni delle imprese editoriali, dal consolidamento della Rete come fonte esclusiva di attingimento dell’informazione per moltitudini sempre più vaste di cittadini; dallo svuotamento dell’idea stessa del pluralismo informativo; dal giogo, più difficile da districare, quello che gli stessi giornalisti sentono gravare attorno al collo: quando applicano forme di autocensura, quando non fanno più le domande, quando rinunciano al racconto dei fatti, quando trasfigurano la loro vocazione mutando profilo e ruolo. Quando accettano quello che Hannah Arendt definiva, Gleichschaltung, l’allineamento.
Di tutto questo v’era una piena consapevolezza in Gianni Faustini, quando nel 2003 parlava di mediamorfosi del sistema informativo:
Non dovrebbe venir meno il compito di mediazione, che è proprio del buon giornalismo, anche se si assiste a qualche appiattimento di troppo della stampa sulla tv, a troppa indulgenza verso la chiacchiera e il sospetto, al diffondersi di un clima di violenza nelle risse, nel linguaggio, dagli stadi sportivi al Parlamento, dalle pagine della stampa ai talk show televisivi. In un’epoca che sembra mettere a disposizione di tutti sia l’accesso alle fonti, che la stessa produzione di notizie, dovrebbero far testo la qualità dei contenuti e la credibilità, uno standard etico e professionale assieme.
Come si fa, allora, a dar torto a Gianni Faustini, che dopo più di vent’anni da Presidente dell’Ordine era tornato a vivere il giornalismo nel ruolo che più interroga l’etica, guidando il Consiglio di disciplinanazionale e misurando, con l’esercizio di quella particolare giurisdizione, talvolta anche la distanza tra i principi che ispirano la nostra professione, con un’attività da infotaiment. Senza l’etica, che considerò l’elemento essenziale per la definizione della professione e del suo accesso, senza la consapevolezza del nostro ruolo nelle dinamiche sociali, senza il fuoco di una vocazione sincera, il giornalismo resta solo un mestiere da cui trarre risorse. E a quel punto si può rischiare che diventi meno importante il colore che quelle risorse assumono.
Una caratteristica di Faustini è l’assiduità dello studio e della ricerca. Gianni non smise mai di studiare le dinamiche del giornalismo, affidando spesso le sue riflessioni alla rivista Problemi dell’Informazione. Nel 2005 commentando un’indagine del Censis sulle modalità attraverso le quali al tempo si diventava giornalista scriveva: il praticantato tradizionale non regge più ammesso che abbia mai funzionato. Bisogna in ogni caso trasferire più puntualmente quel modello formativo idealizzato – teoria accanto a gavetta – nelle scuole di giornalismo che rappresentano, pur con tutti i lori limiti, la vera novità degli ultimi 25 anni nell’accesso alla professione.
In un altro contributo nella stessa rivista, nel 2008, ricordando come pure De Gasperi già nel 1934 sostenesse la necessità delle scuole di giornalismo per la formazione dei giornalisti futuri, annotava: ci sono voluti 65 anni perché nascessero le prime scuole italiane. Ne sono bastati meno di venti per averne due decine. Ancora non c’è l’ombra di uno forzo comune per avere un’idea condivisa di che cosa possa o debba essere la formazione al giornalismo.
Che cosa preoccupava Faustini nel proliferare già allora di tanti e diversi profili specialistici? Che il collante della professione, cioè ciò che la definisce – l’insieme dei principi alla base del bagaglio deontologico – non potesse più rappresentare patrimonio noto e condiviso da tutti i giornalisti.
Ebbe a scrivere, in Etica per i new media, nel 1998: La nostra è senza dubbio un’attività intellettuale per l’esercizio della quale la preparazione è fondamentale soprattutto per esercitarla liberamente al di fuori cioè del contratto. Dinamica sempre più in crescita, peraltro.
Nel 1993, l’Ordine dei giornalisti guidato da Faustini e la Fnsi sottoscrissero la ‘Carta dei doveri del giornalista’. Un tentativo di riprendere e dare organicità ai principi sparsi in quelli che Gianni chiamava scampoli, cioè quelle iniziative che sull’onda emotiva di casi clamorosi fin dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso, presero forma come la Carta di Treviso del 1990, il ‘Protocollo sulla trasparenza del messaggio pubblicitario’ o le carte aziendali di Repubblica, de il Sole 24Ore, della Mondadori, della Rai.
Segno evidente del bisogno di riferirsi a valori condivisi. Tuttavia, rilevava Faustini, uno dei grossi ostacoli puntualmente incontrati dai giornalisti italiani lungo la faticosa strada della definizione di un codice deontologico è stato il problema dei fondamenti di un’etica giornalistica.
C’è un aspetto rilevante della Carta dei doveri che andrebbe rimeditato alla luce fievole del nuovo tempo dell’informazione: nella parte introduttiva, dedicata ai principi, il documento afferma ripetutamente il concetto di pubblico interesse e per la prima volta parlava di responsabilità del giornalista verso i cittadini.
Una responsabilità che certamente esclude le conseguenze delle scelte. Il giornalista che diffonde delle notizie non può farsi carico delle possibili conseguenze. Per i giornalisti non vale una distinzione tra regole tecniche e norme deontologiche in quanto si ritiene – puntualizzava Faustini – che essendo il compito primario del giornalista la ricerca caparbia della verità, se il giornalista svolge tale compito con correttezza e adesione alla realtà, automaticamente onora anche la deontologia professionale, tanto che deontologia e professionalità – che per Gianni restava ancora una parola abusata – sono un tutt’uno.
Di più: Faustini preferisce al lemma responsabilitàquello di servizio pubblico del giornalismo. Non è un problema semantico, ma di sostanza: ricorda, infatti, cheanche tra gli esempi di miglior giornalismo in Italia prevale un sentimento di appartenenza aziendale, talvolta di militanza politica, e addirittura ci si imbatte in qualche caso nell’esaltazione della faziosità. Forse, allora, l’unico rimedio potrebbe essere quello di dichiarare espressamente appartenenze e dunque anche idiosincrasie?
Faustini, dunque, continua a mettere in campo occasioni per una riflessione puntuale su argomenti cruciali: i nuovi media richiederanno in ogni caso l’intervento di un filtro in grado di rispondere a una regola, sia pure minima, leggera, come si propone la deontologia, distinta dall’etica dalla quale, semmai, discende.
Il suo insegnamento, dunque ci interpella profondamente: dobbiamo guardarci dentro, superare il nostro non detto, le contraddizioni e le ambiguità che da sempre ci attraversano. Il giornalismo è un mestiere o una professione? Qual è il modello di giornalismo sul quale indirizziamo la formazione? La nostra Legge istitutiva è vecchia. Tuttavia è tra le leggi che nel tempo ha subito più modifiche. L’unico aspetto non riformato è l’accesso. Ora più che mai la madre di tutte le riforme.
L’autonomia, l’autorevolezza, la credibilità sono gli elementi che contraddistinguono la professione del giornalista. Non sono affatto, però, elementi scontati. Vanno testimoniati quotidianamente da chi svolge la nostra professione in ogni contesto. La funzione disciplinare esercitata in ambito domestico conferisce all’intera categoria la capacità di guardarsi dentro e auspicabilmente di mettere in atto tutte le azioni che possono essere utili per prevenire e per infondere cambi di passo all’azione riformatrice.
Tutto questo è teoria, prassi, pensiero e attività concreta di un giornalista toto corde, un uomo gentile, un Maestro, una persona che sapremo onorare degnamente se riusciremo a seguirne l’insegnamento ed essere, dunque, giornalisti toto corde.
Foto di MARKUS PERWAMGER