Il contributo da Kiev di Nello Scavo, inviato e consigliere nazionale dell’Ordine dei giornalisti
Si è visto al termine della conferenza stampa di Giorgia Meloni con il presidente Zelenskly, quando i candidi marmi settecenteschi del salone presidenziale si sono sporcati di fango. Lo avevano lasciato gli scarponi dei corrispondenti di guerra italiani. Una piccola folla, in gran parte di giovani, alcuni giovanissimi. Hanno trascorso il primo anno di guerra tra asperità e rischi. Tanta passione e non meno precarietà. Perfino attirandosi le lezioncine e qualche petizione di colleghi di molta esperienza che, malauguratamente prepensionati, da casa hanno sommariamente processato e condannato il lavoro della nuova generazione di cronisti dalle aree di crisi. Il tempo passa, e il bel mestiere dicono non sia più quello d’un tempo. Tablet, microcamere, social network, diavolerie e nuovi media.
Certo, qualcuno ha anche attraversato il conflitto pensando che si trattasse di una Disneyland per cronisti in cerca di emozioni forti. Ma poi è la guerra, o come si dice il terreno, a fare la selezione tra chi una motivazione ce l’ha e chi invece è in cerca d’altro.
Niente come le scarpe sporche di questi reporter restituisce l’essenza del nostro esserci, e il patto che faticosamente si rinnova tra il giornalismo e la comunità a cui si rivolge: taccuino o telefonino, anzi taccuino & telefonino. Importa solo esserci per vedere, toccare, annusare, domandare, ascoltare, riportare. Nient’altro che il nostro dovere.