L’eccidio nazifascista che ha colpito la mia famiglia. Una storia d’amore mentre la guerra torna a fare paura.

edizioni Chiarelettere aprile 2023 euro 18,00

Il libro “Un autunno d’agosto” di Agnese Pini è il racconto, con un taglio fortemente narrativo e personale, di una delle tragiche stragi dimenticate del nazifascismo, avvenuta a San Terenzo Monti il 19 agosto del 1944. Un libro in cui non c’è niente di inventato, costruito magistralmente per ricordarci che se dimentichiamo la storia dimentichiamo chi siamo.

La bisnonna di Agnese Pini, morì nella strage, e con lei altri familiari, uccisi con altre 159, solo Clara, una bambina si salvò, che si finse morta sotto ai cadaveri di tutta la sua famiglia.  Il libro ci conduce a un’importante riflessione sui conti mai fatti con il nostro passato e su ferite mai sanate e ancora oggi aperte.  Per raccontarla con le parole di Agnese Pini stessa: «Una storia così lascia un segno indelebile nelle famiglie che l’hanno subita, e appartiene a tutti i sopravvissuti e ai figli dei sopravvissuti. È una storia di umanità e di amore, perché soprattutto nei momenti in cui vita e morte sono così vicini, l’umanità e l’amore escono più forti che mai. L’ho sentita raccontare fin da quando ero piccola: la raccontavano mia nonna, mia madre, mia zia (raffigurata nella foto di copertina del libro), ma per molto tempo ho pensato che fosse un capitolo ormai chiuso della storia d’Italia e della mia storia personale. Mi sbagliavo».

San Terenzio Monti è un minuscolo paese, che si trova in Lunigiana, tra la Toscana, la Liguria e l’Emilia. Un villaggio di pastori e contadini, in cui accade un fatto terribile che segnerà il paese e i discendenti degli abitanti e delle generazioni che sono venute dopo. Siamo nel periodo più atroce della seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre quando l’Italia si scopre invasa da quelli che prima erano i nostri alleat : i nazisti. Sull’Appennino si consuma l’ultima parte, quella più sanguinosa e violenta della guerra. La lotta partigiana qui è molto attiva e gli SS nazisti iniziano una strategia lucida e sistematica di sterminio dei civili, convinti che attraverso queste orrende stragi la resistenza si fiaccherà prima.

Dal 12 agosto 1944 a Sant’Anna di Stazzema, al 29 settembre 1944 a Marzabotto, la carneficina diventa ancora più atroce. In un mese e mezzo la compagnia di SS comandata da Walter Reder ammazza oltre 2000 persone soprattutto donne e bambini. Nel biennio 1943- 1945 in Italia i morti civili uccisi in crimini di  guerra sono 25 mila a cui si aggiungono 40 mila deportati e mai tornati, per un totale di 65 mila ammazzati dai nazifascisti.

Per questi crimini non ci sono mai stati processi, non c’è stata giustizia giuridica e neanche una giustizia storica, perché la maggior parte di queste stragi, ricorda Agnese Pini, ce le siamo volute dimenticare. Le abbiamo ignorate per 80 anni. L’assenza di giustizia ha impedito alle generazioni che sono venute dopo di dare un senso a quelle morti. Non ci sono state risposte, non ci sono stati processi ne nomi e cognomi degli assassini.

Nei ricordi di famiglia di Agnese Pini c’è sempre il ricordo di quella strage in cui fu uccisa Mira, Palmira la bisnonna, mamma della nonna e gli altri parenti, ma questi ricordi erano rimasti in un angolo della sua memoria. Nel 2019 diventa direttrice della Nazione e pochi giorni dopo, il 5 agosto riceve una mail di congratulazioni da un collega, tal Roberto Ligeri. Quel nome le dice qualcosa, è un collega che le scrive, anche lui come lei è originario di San Terenzo Monti ed è la prima volta che qualcuno che non è della sua famiglia le ricorda le sue origini. Ligeri è il figlio di Mario Ligeri, l’oste di San Terenzio a cui è stata uccisa nell’eccidio tutta la sua prima famiglia: moglie e 5 figli (il più grande ha 17 anni la più piccola 3). Costretto a servire il pranzo ai nazisti, mentre Reder firmava l’ordine di esecuzione di morte di 160 persone e Mario è ignaro di quello che sta accadendo. È la banalità del male.

Roberto Ligeri invita Agnese ad andare a San Terenzio con il pudore di chiedere qualcosa che, ne è consapevole, smuove sentimenti intimi e dolorosi, che fanno molto male. Ma lei non è ancora pronta e non ci va, perché non è facile fare i conti con queste storie, ci metterà altri 3 anni. La molla scatta quando da direttrice si trova a raccontare la guerra in Ucraina, una guerra che vediamo attraverso i droni, i satelliti le immagini sui social, che crediamo di poter “controllare” ma il 1 aprile accade l’eccidio di Bucha, un crimine di guerra in cui vengono uccise 500 persone donne bambini anziani e di cui noi ne veniamo a conoscenza dopo 15 giorni.

I crimini di guerra hanno tutti lo stesso copione si consumano dove non possono essere scoperti e hanno sempre come vittime gli ultimi. E anche qui come già accaduto in tanti altri eccidi la popolazione dà ai partigiani la colpa indiretta di quello che è accaduto.

Tutto questo, ricorda Pini, ha a che fare con la giustizia negata. Se viene fatto un processo c’è giustizia, non è che il dolore viene meno, ma si può dare una dignità a quel dolore. La giustizia è quel sentimento che ti permette di concepire il dolore degli altri, è empatia, ti connette con il dolore altrui, con le prevaricazioni, le sofferenze. Le verità giudiziarie sono importanti perché diventano verità storiche.

A San Terenzo anche gli ultimi volevano la libertà, non volevano sottostare all’invasore. L’invasore vuole il loro cibo, i loro animali e allora alcuni di loro chiedono aiuto ai partigiani, alla brigata di Memo, tutti ragazzi giovani dai 17 ai 30 anni. I partigiani di Memo uccidono in un agguato 16 SS naziste. Gli abitanti di San Terenzo sanno che gli SS si vendicheranno e molte famiglie, la maggior parte degli abitanti, pensando di essere al sicuro, si nascondono nella fattoria del Valla perché “la paura e l’orrore si esorcizzano meglio nella vicinanza piuttosto che nella solitudine. Fu proprio la spinta a non restare soli, tenera e umanissima, che condannò il paese al suo destino.” Invece i nazisti stanno già preparando l’eccidio: 1 tedesco ucciso, 10 italiani ammazzati.

Agnese Pini ricostruisce tutto quello che accadrà dopo, la scoperta dell’armadio della vergogna dove erano nascosti fascicoli con i nomi di chi si era macchiato di quei di crimini terribili di guerra. Magistrati coraggiosi aprono l’armadio e vanno avanti. Uno di questi è De Paolis che Agnese intervista e di cui parla nel libro. I fascicoli sono oltre mille pagine,  dentro ci sono immagini, testimonianze dei sopravvissute, fascicoli lasciati sulle scrivanie delle procure militari e quando sono diventati troppi, vengono nascosti negli armadi con il timbro “archiviazione temporanea” e occultati nel sottoscala della procura militare di Roma. Marco de Paolis giovane procuratore militare di stanza a La Spezia legge i fascicoli vede che lì dentro c’è un orrore disumano, altri suoi colleghi non hanno lo stesso coraggio e li archiviano definitivamente senza leggerli. De Paolis inizia le indagini. Riesce a rintracciare 300 nazisti in tutta Europa e a farne condannare 51. Nessuno di loro ha fatto un giorno di carcere, ma hanno avuto l’ergastolo. Sono morti a casa loro perché la Germania non ha concesso l’espatrio.

Questo libro è un racconto doloroso che, attraversando il passato, si propaga fino ai nostri giorni, perché “le cose non esistono fino a che non le raccontiamo”. E il dolore personale si trasforma in dolore collettivo, dando nomi e cognomi alle vittime di quella strage.

A noi rimane il senso di colpa che la storia ci consegna, per una delle tante tragiche stragi dimenticate del nazifascismo, perché come scrive Agnese Pini “è qui, è esattamente in questo punto cruciale e delicatissimo, l’equivoco irrisolto, la ferita mai rimarginata, la fatica nel tramandare una memoria in cui gli argini siano chiari e ricomposti, in cui non vi sia spazio per rivisitazioni e revisionismi, per interpretazioni relativistiche che finiscono col trasformarsi nel peggiore dei qualunquismi: quello che negando o banalizzando la verità distrugge la storia.” dice l’autrice “Grazie anche al lavoro che faccio, ho capito invece che quel capitolo era tutt’altro che chiuso, che lì si nascondono gli istinti più inconfessabili di ciò che possiamo ancora essere. L’ho capito con la guerra in Ucraina, vedendo come certi orrori si perpetuino sempre identici al di là delle latitudini e degli anni. E l’ho capito perché nel nostro paese c’è un periodo, il ventennio fascista, che ancora non riusciamo a guardare con una memoria davvero condivisa. La storia raccontata in questo libro può diventare allora un’occasione per tornare a ciò che siamo stati con una consapevolezza nuova. Del resto la resistenza civile di un paese si può tenere viva solo restituendo verità e dignità al destino degli ultimi. Questo è un libro sugli ultimi ed è a loro che è dedicato, perché su di loro si è costruita l’ossatura forte e imperfetta di tutto il nostro presente, dunque anche del mio”.

 

STAMPA QUESTA PAGINA