Categoria: scenari e prospettive

Il difficile rapporto tra libertà di espressione e c.d. diritto all’oblio

di Guido Scorza
La storia dell’informazione e quella della privacy sono legate a doppio filo sin dalle origini e cioè da quel lontano 1890 nel quale due giuristi americani Samuel Warren e Luis Brandeis scrissero sull’Harvard Law Review “The right to privacy”, teorizzando così il “right to be let alone”, il diritto a essere lasciati soli che avrebbe poi rappresentato l’embrione che ha dato vita al diritto alla privacy moderna.

A ispirare il saggio di Warren e Brandeis, alcuni articoli, che oggi definiremmo di gossip, sulle nozze della figlia del primo, pubblicati dai primi cc.dd. “quotidiani gialli” del tempo, tra i quali il New York World di quel Joseph Pulitzer che sarebbe poi divenuto simbolo del giornalismo di qualità ma che, all’epoca, da editore, pare cedesse spesso alla tentazione di sacrificare la qualità dell’informazione sull’altare delle vendite con titoli, prime pagine, pezzi e immagini sensazionalistiche.

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Un ruolo centrale per i giornalisti

di Elena Golino
Negli anni, abbiamo assistito ad una crescita esponenziale dell’informazione nel digitale. Le dimensioni sono diventate colossali. In un solo minuto nel mondo vengono inviati 44 milioni di messaggi, effettuate 2,3 milioni di ricerche su Google, generati 3 milioni di “mi piace” e 3 milioni di condivisioni su Facebook, e vengono effettuati 2,7 milioni di download da YouTube. Lo scrivono l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e il Garante per la protezione dei dati personali in una indagine comune del 2020. Certamente, questi dati “monster” oggi sono ulteriormente lievitati.

La tecnologia digitale consente ormai da anni questi volumi giganteschi di traffico nel web in tempo reale, senza pause, 24 ore su 24. E soprattutto senza confini. La rete è un tutt’uno globale e laddove dei cittadini non riuscissero a far parte della “comunità digitale planetaria”, la responsabilità è unicamente da attribuirsi a governi locali che applicano la censura. Esempi in questo senso non mancano: dal Medio Oriente, all’Asia, all’Europa dell’Est, in Russia, in alcuni stati del Sud America le limitazioni di accesso e di fruizione alla rete sono all’ordine del giorno. E non è un caso, che queste limitazioni siano messe in atto da governi spesso lontani dai principi basilari della democrazia.  

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Nuove prospettive per il giornalismo

di Richard Gingras
La più grande sfida che il giornalismo deve affrontare è la sua rilevanza.
Il giornalismo di qualità non esisterà, tanto meno prospererà, se una società non riconosce l’importanza del giornalismo e non lo sostiene con la propria attenzione e il proprio supporto finanziario. Praticamente tutti i sondaggi evidenziano quanto la percezione della fiducia e del valore del giornalismo siano in costante calo. Ciò non sorprende, dato che molti politici liquidano come “fake news” tutto ciò che ritengono sia per loro sfavorevole.
Il mondo è cambiato. Più che mai c’è bisogno di giornalismo di qualità per comprendere il nostro mondo ed essere cittadini attivi. Siamo sopraffatti da internet: cambia continuamente, clic dopo clic, con ogni frammento di informazione che sputa fuori. Dai teneri meme dei social network a una schiera infinita di opinionisti e influencer. Dagli utili tutorial e dai sogni ispirati di creatori di video, agli imbonitori e ai propagandisti. Dalle istantanee di graziosi nipotini, alle foto ritoccate per manifestare una falsa indignazione. Dall’ esperienza profonda del giornalismo digitale innovativo, all’astroturfing finanziato da chissà chi.
È un ecosistema mediatico complicato composto da elementi di una semplicità spaventosa. La cultura, la politica e le notizie sono ridotti a meme e messaggi di 280 caratteri senza contesto né sostanza. Il nostro mondo è distorto e stravolto da sconfortanti meme culturali che siamo indotti ad amplificare, da cattive pubblicità che offrono falsi rimedi, da politici che soffiano sul fuoco di paure che essi stessi promettono poi di spegnere.

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Il pluralismo informativo tra teorie dei media e (limiti della) tutela normativa. Proposte per una evidence-based regulation

di Elisa Giomi
In questo contributo si analizzano la nozione di “pluralismo informativo” e le forme della sua tutela nel nostro ordinamento, per poi avanzare una proposta che possa colmare quelle che – lo mostreremo – appaiono criticità irrisolte. Questa operazione non può che partire da una chiara enunciazione di come debba intendersi il pluralismo. La nozione varia, infatti, in base al ruolo che si assegna ai media nel dibattito sociale e nella costruzione dell’opinione pubblica. A sua volta, questo ruolo varia in base ai modelli di democrazia e alle teorie mediali che adottiamo. È dunque da questa ricognizione che prende avvio il percorso.

Per una definizione di pluralismo: modelli di democrazia e teorie dei media
Crediamo che una proposta molto utile per definire il pluralismo provenga da Raeijmaekers e Maeseele, in un articolo del 2015 dal titolo “Media, pluralism and democracy: what’s in a name?”[2]. Gli autori analizzano tre differenti “scuole” di teoria democratica – liberale, deliberativa, agonistica – ed i corrispettivi ruoli assegnati ai media, traendone due criteri identificativi del pluralismo mediale.
Il primo criterio è la distinzione “consenso/conflitto”. I primi due modelli di democrazia presi in esame, liberale e deliberativo, puntano a superare eterogeneità e controversie sociali per raggiungere il consenso collettivo. Il modello agonistico non ritiene invece che eterogeneità e controversie debbano essere superate, giacché le considera costitutive della stessa politica democratica.

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La datificazione del giornalismo

di Colin Porlezza
Nel lontano 1967, il teorico delle tecnologie Lewis Mumford creò il concetto della cosiddetta “mega-macchina”. Nel suo libro The Myth of the Machine (Il mito della macchina), l’intellettuale statunitense situa questa mega-macchina nell’antico Egitto per descrivere le organizzazioni gerarchiche costituite da decine di migliaia di esseri umani schiavizzati e controllati dal potere di re venerati come degli dei.
In questa mega-macchina, gli schiavi diventano una risorsa trasmettendo la loro energia a un meccanismo più grande che si può sfruttare per costruire intere piramidi. La gestione di tutte queste vite in schiavitù viene attribuita a un apparato militare e amministrativo per assicurarne il controllo e l’utilizzo efficiente. Nella sua opera successiva, Mumford adattò il suo concetto di “mega-macchina” al mondo digitale, sostituendo il re divino con un cosiddetto “Omni Computer”, cioè “l’ultimo modello di computer I.B.M., programmato con zelo dal Dr. Stranamore e dai suoi associati” (1970, p. 273). In questo caso non c’è più un’enorme massa di schiavi costretti a svolgere lavori disumani, ma una “info-macchina” che monopolizza il potere, pronta a elaborare dati “misurati quantitativamente o osservati oggettivamente”. Nella visione critica del progresso sociale da parte di Mumford, gli esseri umani subiscono una disintegrazione totale dell’autonomia dato che vengono ridotti a un semplice ingranaggio della macchina artificiale.

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Giornalismo, AI, e nuove responsabilità digitali

di Luciano Floridi e Guido Romeo
Il futuro del giornalismo è già qui, ma non è equamente distribuito. Le applicazioni di quell’insieme di tecnologie che chiamiamo intelligenza artificiale (IA) nel mondo dell’informazione sono in crescita esponenziale e stanno cambiando il modo di trovare, produrre e distribuire i contenuti aprendo nuovi modelli di monetizzazione. Si va dalla distribuzione personalizzata di contenuti come feed o newsletter iper-personalizzate, alla produzione automatica di contenuti in crescita sia nella finanza che nello sport, al pricing dinamico di banner e abbonamenti, all’estrazione di notizie da collezioni di big-data, a migliori trascrizioni automatiche di audio e video, all moderazione dei commenti anche su grande scala e al riconoscimento di fake news e deep-fake, fino a nuovi strumenti di fact-checking e all’aumento della capacità di ricercare immagini e catturare il sentiment dei sempre più diffusi contenuti generati dagli utenti (UGC- user generated content).
Ancora più importante – come ha sottolineato la London School of Economics – è l’aumento della domanda di questi servizi da parte di utenti come i ragazzi della Generazione Z, nati e cresciuti in un mondo di contenuti personalizzati e on-demand.

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Un puzzle complicato

di Antonio Rossano
La crisi sistemica del mondo dell’informazione che sta causando la disruption di un sistema editoriale, economico, comunicativo e sociale, non è questione semplicemente di individuare un modello di business innovativo o un formato nuovo per le notizie: è il prodotto di un sistema complesso dove forze di varia natura interagiscono tra di loro: economia, diritti, tecnologia, mercato, capitale, dinamiche sociali, politica, aspetti cognitivi e comportamentali.
L’ecosistema informativo dove il giornalista opera è paragonabile ad un grande puzzle all’interno del quale le tessere che lo compongono hanno una speciale caratteristica: cambiano continuamente forma, rendendo necessaria una continua revisione delle posizioni e dei collegamenti e l’aggiunta costante di nuovi elementi.
La questione dell’attenzione e della fiducia nel giornalismo
Il vero oro dell’economia dell’industria culturale e, nello specifico, dell’informazione digitale, è costituito dall’attenzione dei lettori, da cui consegue la necessità imprenditoriale di ottenere tale attenzione a tutti i costi.
Non è certamente una novità: da oltre 50 anni è ben noto il valore dell’attenzione come bene primario per l’industria culturale, più o meno da quando, a settembre del 1969, Herbert Simon (in seguito premio Nobel per l’economia) aprì la sua conferenza alla Johns Hopkins University, con un intervento dal titolo “La progettazione di organizzazioni in un mondo ricco di informazione”.
L’analisi di Simon delineava in prospettiva i possibili sviluppi del passaggio da una economia dell’abbondanza (di attenzione) ad una economia di scarsità e, viceversa, da un’abbondanza di informazioni ad una scarsa disponibilità di attenzione, come ricorda Mancini: “[…] se nei primi anni della comunicazione di massa (più o meno per tutta la prima metà del Novecento) i mezzi e i messaggi in circolazione erano in numero ristretto, si era cioè in una situazione di scarsità, con poche fonti di comunicazione e con un universo simbolico non così affollato di messaggi come oggi, con il passare degli anni, soprattutto grazie all’innovazione tecnologica, il numero delle emittenti e il numero dei messaggi è aumentato in maniera portentosa, tanto che oggi si può appunto parlare di una situazione di abbondanza.”

La lentezza nell’adeguarsi e nel comprendere i cambiamenti del mondo dell’informazione, ha fatto sì che solo nell’ultimo decennio l’attenzione di editori e giornalisti si sia spostata da criteri organizzativi e di valutazione tipici della carta stampata a sistemi più adatti a cogliere e restituire valori indicativi dell’attenzione e del coinvolgimento dei lettori in ambiente digitale. Lentezza comprensibile da una parte (come immaginare di abbandonare un business che aveva sempre funzionato?) ma che ha costituito uno dei problemi principali problemi per l’evoluzione del giornalismo.
D’altra parte una ricerca eccessiva di attenzione, per i news media, può costituire uno dei problemi principali nella interpretazione della propria funzione all’interno di una società, come propone De Biase ricordando McLuhan in una più ampia riflessione sul futuro della società: “Se l’ambiente mediatico attraverso il quale ci facciamo un’idea della realtà è totalmente dominato dalla competizione per l’attrazione di attenzione, non c’è narrazione ma soltanto una ripetizione di opinioni chiuse nel cerchio terribile della ricerca immediata di consenso: opinioni che non si confrontano con la realtà ma che cercano di circoscrivere una realtà a uso e consumo di chi le esprime. Se non c’è una storia ma soltanto una continua ripetizione, allora non c’è passato e dunque non c’è futuro.”

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