(da “Il Quotidiano del Sud L’altra voce dell’Italia” – 13 settembre 2021)
IO LA VEDO COSÌ di Lidia Marassi
Si terranno oggi, lunedì 13, i funerali di Chiara Ugolini, la giovane ragazza aggredita e uccisa all’interno della sua abitazione nel Veronese. Nel raccontare gli eventi alcuni giornali hanno preferito soffermarsi sulla caratterizzazione dei soggetti coinvolti, a scapito delle informazioni relative all’ennesimo caso di femminicidio.
Sono tanti gli episodi di violenza che non vengono adeguatamente riportati da buona parte della stampa italiana e che sono invece spettacolarizzati in virtù di esigenze editoriali.
Nel leggere dell’uccisione di Chiara Ugolini, la vicenda è stata descritta omettendo quasi sempre il termine femminicidio, prediligendo invece la narrazione morbosa della morte di una donna giovane e avvenente. Addirittura, alcuni hanno sottolineato con stupore che ad essere coinvolta, sia stata una “ragazza perbene”, operando una valutazione sulla moralità della vittima piuttosto che sulla gravità della violenza. Si tratta spesso di giudizi formulati secondo stigmatizzazioni sessuali socialmente condivise, che considerano la rettitudine della vittima tra i parametri per poterla riconoscerla come tale. Del resto fin troppo spesso alcune testate, nel presentare fatti di cronaca, finiscono per trasmettere ai lettori l’idea che le vittime siano divenute tali a causa della loro sconsideratezza.
La dinamica del victim blaming ossia la colpevolizzazione della vittima – sopravvaluta il ruolo assunto da quest’ultima giusificando e scagionando socialmente gli aggressori. Quando la vittima è donna si cerca quasi sempre un deterrente nella sua morte, un alibi che possa spiegare le azioni dell’assassino, una storia personale complicata, un passato burrascoso, qualcosa che possa motivare la violenza del carnefice. Quest’ultimo diventa il protagonista delle cronache, mentre la vittima sbiadisce sullo sfondo, nei dettagli su quanto fosse bella o cosa indossasse al momento dell’omicidio. Gli articoli più capziosi suggeriscono implicitamente che la avvenenza o l’inaccessibilità di una giovane donna (a volte fantasie voyeuristiche dei giornalisti più che dati di realtà), possano effettivamente essere la causa scatenante di episodi di crudeltà.
Questa tendenza a voler raccontare gli eventi come se si trattasse di trame romanzesche, oltre ad essere innanzitutto poco efficace da un punto di vista comunicativo finisce inevitabilmente per sminuire la gravità della violenza e denota una certa reticenza nell’ammettere l’esistenza di un problema socio-culturale. Tale scelta stilistica si riscontra in articoli giornalistici che descrivono gli assassini come mostri, o li paragonano a bestie, cercando forse nella deumanizzazione una ragione che possa spiegare presunte pulsioni incontrollabili, scomodando all’occorrenza il caro concetto di raptus. All’umiliazione della violenza si aggiunge così la vergogna di un racconto distorto e irrispettoso.
Nel rispondere ad alcune critiche che contestavano proprio la scelta di riportare l’accaduto utilizzando un particolare linguaggio, alcuni hanno ribattuto che l’abbondanza di dettagli servirebbe piuttosto a contestualizzare l’accaduto, addirittura fungendo da testimonianza diretta. Se è comunque improbabile che la descrizione minuziosa dell’appartamento di una vittima possa avere una qualche utilità nel renderle giustizia, è sicuramente bene ricordare che la stampa non è una succursale della magistratura, e il suo ruolo non dovrebbe essere quello di esprimere un giudizio, ma piuttosto quello di fare corretta informazione. Una buona stampa fornisce al lettore gli elementi che gli consentono di maturare una propria idea, ma senza che questo riduca la notizia stessa a mera morbosità scandalistica. Chi legge è in parte influenzato dal modo in cui un evento viene riportato, cosicché descrivere una vittima di violenza sottolineandone l’abbigliamento succinto, o viceversa stupirsi del coinvolgimento di una figura composta, fornisce e sopravvaluta dettagli che dovrebbero invece essere irrilevanti. Allo stesso modo, distogliere l’attenzione del lettore dai fatti in sé, concentrandosi su dettagli tendenziosi, contribuisce a rendere difficoltoso affrontare il tema del femminicidio con la serietà che meriterebbe.
Tra le nuove regole deontologiche introdotte dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti per il “Testo Unico dei doveri del giornalista” (entrate in vigore il 1 gennaio 2021) si legge “Nei casi di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e fatti di cronaca, che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità sessuale, il giornalista: a) presta attenzione a evitare stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della persona; b) si attiene a un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole. Si attiene all’essenzialità della notizia e alla continenza. Presta attenzione a non alimentare la spettacolarizzazione della violenza. Non usa espressioni, termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto commesso”.
Ci si augura che si possa maggiormente tenerne conto, ricordandosi che una vittima si può offendere anche con la narrazione distorta del suo assassinio.